L’olivo di Atena, fra mito e simbologia

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Un cavallo, un olivo, una città e due divinità. Il futuro paesaggio mediterraneo si deve all’accortezza dell’uomo, non alla grazia divina. Quando Cecrope, mitico re dell’Attica, venne indicato da Zeus come arbitro unico della contesa fra Atena e Poseidone, era in gioco molto di più del semplice orgoglio divino: a confronto erano due concezioni di civiltà, due modelli di società. Poseidone immaginava per la città greca un grande futuro di commerci sul mare e di guerre in regioni lontane con il prezioso sussidio del suo maestoso dono, il cavallo. Ma Atena non condivideva una simile visione, la partenos nata dalla mente di Zeus concepiva il mondo come un immenso giardino di occasioni, per gli uomini di imparare, e per lei di insegnare. Donò, quindi, una pianta sempreverde, resistente e longeva, adatta a sopportare la siccità estiva e i venti salmastri, le cui verdeggianti fronde in primavera biancheggiavano di minuscoli fiori che, in autunno, producevano piccoli frutti oleosi.
Gli abitanti dell’Attica accordarono la loro preferenza alla figlia di Zeus e posero sotto la sua tutela la loro città, che da quel giorno fu chiamata Atene. A suggello del vincolo divino fra la polis e la dea, l’albero sacro fu piantato nella piazza principale dell’Acropoli.
Ma perché fu Atena a trionfare? In che cosa la sua offerta risultò più allettante di quella di Poseidone?
È presto detto. Il suo dono non era sterile, al contrario, era in grado di generare altri doni; la dea infatti non si limitò a offrire l’olivo: insegnò anche la tecnica della spremitura, con cui ottenere un prodigioso liquido, denso e profumato. Un’ambrosia per mortali, panacea di tanti bisogni e di innumerevoli mali, più prezioso dell’oro. L’olio d’oliva nutrì, curò, profumò, illuminò l’uomo per millenni. Tanto avvinto alla divinità che lo aveva generato (da divenire sacro esso stesso), si faceva divieto assoluto di arderne il legno, mentre il suo liquido era l’unico considerato degno per l’unzione dei re e dei sacerdoti.
Non solo. A Olimpia, sulle pendici della collina sacra di Crono, verdeggiava un bosco di olivi semiselvatici, immagine vivente della mitica Età dell’Oro e figura dell’epopea matriarcale che garantì i natali all’agricoltura, con i suoi andamenti ciclici legati al tempo. E poiché la coltura dei campi necessitava di lunghi periodi di assenza di conflitti, l’ulivo divenne, per estensione, simbolo di una società che ambiva alla pace. Gli araldi che chiedevano la tregua non esibivano forse rami di olivo? Non recavano in dono giare di olio? E non era un ramoscello quello che la colomba riportò a Noè per suggellare la pace fra Dio e l’Uomo? Il Cristo stesso – l’unto del Signore, appunto – accolto trionfalmente a Gerusalemme, fu salutato con fronde d’ulivo.
E, fedeli al mito e alla Fede, anche noi oggi ci serviamo dell’olio d’oliva per le cerimonie religiose e i ramoscelli d’ulivo per la benedizione delle famiglie.

La storia. È all’epoca paleolitica (35.000-8.000 a.C.) che si fa risalire la comparsa nell’Europa meridionale di una pianta affine all’olivo. La sua coltivazione parrebbe nascere a ovest dell’altopiano iraniano, a sud della catena caucasica, in un’area compresa fra la Mesopotamia, la Siria e la Palestina, per poi diffondersi, attraverso i greci e i fenici, in tutto il Mediterraneo.

In Sardegna. Se nella variante selvatica, dell’olivastro, l’olivo è documentato in Sardegna fin dal Paleolitico, è solo al periodo compreso fra l’VIII e il VII secolo a.C. a opera, probabilmente, di popolazioni di origine minoica – mediante l’ingentilimento di olivastri locali con potature ripetute ed innesti – che si ascrive la sua coltivazione per la produzione di olive e olio, che divenne notevole all’epoca della conquista fenicia.

I romani. Durante la dominazione romana si favorì lo sviluppo economico dell’olivicoltura con l’impianto di alcune importanti aree nella Sardegna centromeridionale, delle quali è rimasto il chiaro riscontro toponomastico: Oliena (Oleanam), Parteolla (Partem olea). Furono inoltre posti in essere i torchi per l’estrazione dell’olio che rimasero pressoché inalterati per concezione costruttiva sino alla fine del XIX secolo, quando furono scalzati dalle moderne presse di ferro.
Un forte calo si ebbe invece tra la tarda antichità e l’alto medioevo, e solo con la dominazione pisana, durante i secoli XII e XIII, si ebbe una certa ripresa, cui sono ascrivibili le vestigia di vecchi oliveti in tutte le aree in cui è stata storicamente documentata la presenza toscana: Marmilla, Trexenta e Sulcis-Iglesiente.

La fase spagnola. Fu solo agli albori dell’età moderna che prese avvio l’attuale assetto dell’olivicoltura sarda. Fondamentale, in tal senso, risultò il decreto del Viceré spagnolo don Giovanni Vivas del 1624, che stabilì provvedimenti a favore dell’olivicoltura isolana; vennero indicate norme, modalità, riconoscimenti e obblighi, per l’innesto di olivastri già esistenti nonché per la messa a dimora di nuovi esemplari lungo i limines delle proprietà. Oltre le 500 piante si imponeva la prescrizione del tenere macina; fu inoltre finanziato un piano per l’arrivo di cinquanta uomini benesperti nello innestare provenienti da Valenzia e Maiorca. Vennero contestualmente importate le marze tutt’oggi esistenti: Palma o Bosana ad Alghero, Majorchina, Sivigliana e cosi via.

Il Regno di Sardegna. Il Governo sabaudo favorì la crescita del settore al punto di accordare titoli nobiliari ai coltivatori che avessero messo a coltura non meno di 4.000 piante di olivi. La nobiltà “verde” è ricordata anche dal La Marmora nel suo Viaggio in Sardegna, con la menzione dei 10.000 impianti del marchese di Vallermosa. Ma il generale annotta, soprattutto, che la produzione di olio degli oliveti sassaresi nell’anno 1819, per quantità e qualità, era concorrenziale rispetto a quello della Provenza e della Calabria. Fu nei primi decenni dell’Ottocento che vennero introdotte, infatti, le prime installazioni per l’estrazione industriale dell’olio dalle sanse, dapprima a Sassari e poi in nei centri di Bauladu, Bosa e Alghero.

Oggi. Col secondo dopoguerra si iniziano a introdurre nuove tecniche di coltivazione e qualche innovazione negli impianti estrattivi. Dopo il decennio critico tra gli anni Sessanta e Settanta, l’olivicoltura sarda attraversa, oggi, un momento di prospera rinascita, con una particolare attenzione per gli aspetti agronomici e tecnologici al fine di garantire produzione di oli di elevato pregio. Attualmente le zone di maggior produzione si spalmano su tutto il territorio isolano, con zone di dichiarata eccellenza nella provincie storiche di Sassari (Sorso-Sennori, Alghero e Bonnanaro), di Cagliari (Parteolla, Gonnese-Arburese-Villacidrese e Alta Marmilla), Oristano (Montiferru e Cabras) e Nuoro (Dorgali-Oliena-Baronia, Ogliastra, Gergei e parte del Sarcidano). Se il riconoscimento Dop segna un nuovo orizzonte di crescita in chiave nazionale e mondiale per l’olio sardo, è la varietà, frutto di una storia millenaria, la vera forza dell’olio nostrano. Dalle celebri tonda di Cagliari, pizz’e carroga e bosana (tonda sassarese), alle meno note ma non meno diffuse ceresia, olianedda, semidana, nera di Gonnosfanadiga, nero di Villacidro, cariasina di Dorgali e di Oristano, corsicana, pezza de quaddu e majorca di Dorgali, la Sardegna è un tripudio di profumi e sapori.
Ma il dono di Atena è molto più di un prodotto alimentare. Vergine come la dea, portatore di fratellanza fra i popoli come nella mitica età dell’oro, non è certo un caso che ollu armanu, una delle forme con cui in lingua sarda veniva chiamato l’olio d’oliva, derivi da hermano, fratello – ma anche puro e genuino – in spagnolo. E ghermanos, infatti, erano chiamati i possibili acquirenti dai venditori d’olio. Mediterranei d’origine, sardi di nascita e ghermanos grazie all’olio d’oliva.