Le città dei morti. San Sperate e le sue necropoli.


Parrocchia

Conoscere la vita imparando dalla morte. Per quanto paradossale possa sembrare, tante delle nostre conoscenze sulla vita delle antiche civiltà provengono dallo studio delle loro dimore eterne: le necropoli. E non solo grazie ai corredi – più o meno ricchi – che le adornano. I luoghi scelti, le modalità di sepoltura e i rituali, non sono mai casuali e differiscono fortemente tra popolazioni diverse, tanto che il passaggio dall’incinerazione all’inumazione – o viceversa – può essere di per sé indizio di un’ondata migratoria di nuove etnie o di cambiamento di fede religiosa.
La Sardegna nella sua storia millenaria ha visto alternarsi civiltà e conquistatori e, con essi, riti e credenze funerarie: dalle misteriose domus de janas (ultima dimora delle genti del neolitico), alle maestose tombe dei giganti nuragiche, dai tofet punici alle necropoli romane e cristiane. Storia di vita scritta fra gli anfratti delle città dei morti. Come a San Sperate.
Preistoria e protostoria La natura pianeggiante del suolo e la presenza di due fiumi, nonché di sorgenti e di falde acquifere superficiali, favorì la presenza di stanziamenti stabili nel territorio di San Sperate fin dall’epoca preistorica e protostorica, come testimoniato dagli abbondanti rinvenimenti di resti di vasellame e macine attribuibili al Bronzo medio iniziale (XVI – XV secolo a. C.). E una notevole continuità insediativa segnò questa località, che risulta popolata a partire dal Bronzo medio (XIV sec. a. C.) sia nel Bronzo Recente che nella prima età del ferro (XIII – VI sec. a. C.), con lo sviluppo di due distinti nuclei abitativi nuragici, quello di San Sebastiano e quello di San Giovanni.
Età punica Ma è all’età punica che risalgono le testimonianze funerarie più antiche. Con l’arrivo dei Cartaginesi nell’isola tra la fine del VI e l’inizio del V secolo, infatti, anche il sito dell’attuale San Sperate passò sotto i nuovi dominatori che realizzarono nel suo territorio nove abitati indipendenti, tra i quali il ruolo preminente spettò a quello sorto in corrispondenza dell’antico villaggio nuragico di San Sebastiano. Da quest’ultimo dipendevano quattro aree sepolcrali autonome dislocate nella periferia (Bia de Deximu Beccia, Su Stradoi de Deximu, San Giovanni, via Nuova), le cui vaste dimensioni testimoniano la rilevanza di questo villaggio in epoca cartaginese. La loro dislocazione potrebbe essere legata non solo a questioni di natura logistica (distanza dai vari nuclei abitativi) ma anche dalla diversa destinazione in base all’età, allo status sociale o all’etnia. Il corredo funerario ritrovato ha, in taluni frangenti, dell’eccezionale. E’ il caso della necropoli di Bia de Deximu Beccia, in cui fu ritrovata nell’Ottocento dal Vivanet la celebre maschera apotropaica in argilla, di color beige chiaro, caratterizzata da una resa naturalistica delle orecchie (forate per ospitare gli orecchini) e dall’enigmatico sorriso ghignante, forse opera di un artista cartaginese e databile intorno al V secolo a. C. Ma soprattutto dell’altare nuragico rinvenuto presso il sito di Su Stradoni de Deximu, un magnifico esempio di riutilizzo a scopo funerario di un prezioso e antichissimo manufatto votivo. Ciò che però accomuna tutte queste aree sepolcrali è l’assenza delle celebri tombe monumentali a camere, presenti nei più importanti sepolcreti dell’isola (Tuvixeddu, Sulci, Sirai, Tharros, Senorbì, Sanluri e Villamar), sostituiti da sarcofagi monolitici in pietra calcarea. Tale peculiarità sembrerebbe legata all’assenza, nel territorio speratino, di falde rocciose atte alla costruzione di ipogei funerari complessi.
Epoca romana «Hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito». Così sentenziavano le Dodici Tavole della legge, promulgate già nel 450 a. C. e mai cadute in disuso nel diritto romano. Una prescrizione così rigida (“Non si seppellisca né si cremi all’interno della città alcun morto”), che soggiaceva a precise necessità igenico – sanitarie, ridisegnò parzialmente l’assetto urbanistico del paese. Se infatti dall’indagine archeologica è emerso il permanere in epoca romana dello stesso perimetro dell’insediamento dell’età precedenti, solo una delle aree sepolcrali di epoca romana rinvenute a San Sperate, quella in località Monte Sirai, risulta insistere sulla precedente necropoli punica. Dell’altra, situata in regione Su Padru, dove sarebbe sorta l’ecclesia paleocristiana, si hanno notizie meno precise. Le scoperte non avvennero infatti in occasione di scavi regolari, ma come conseguenza di lavori realizzati per la messa in sicurezza della riva sinistra del Rio Mannu, durante i quali emersero tombe con copertura in tegole embricate inerenti ad un sepolcreto di epoca romana, cui sembrerebbe essere pertinente un’iscrizione, attualmente incorporata sul muro esterno della sagrestia parrocchiale. L’epigrafe, riportante la dedica pagana agli dei Mani, è relativa alla figlia di una Iunia Pedusea morta all’età di 25 anni.
Fase cristiana e vandalica Non esiste purtroppo nessuna testimonianza sulla diffusione del cristianesimo a Sperate e pochissime sono anche le informazioni sulla fase vandalica e bizantina del centro. Importante veicolo di diffusione della nuova fede in ambito rurale, a partire dalla fine del V secolo, fu la costituzione di piccole aule di culto presso gli spazi e gli ambienti di ville rustiche tardo romane; è testimoniato in particolar modo un frequente riuso ed adattamento delle strutture termali ormai in disuso di queste villae, più idonee alle esigenze liturgiche cristiane. Anche a San Sperate l’antica chiesa paleocristiana dedicata a San Sperate sembra rispondere alle stesse caratteristiche. Essa era ubicata in una zona marginale rispetto all’abitato e insisteva su un’area cimiteriale, che secondo G. Ugas permetterebbe di collegarla a forme di religiosità di tipo ctonio-funerario. La presenza di lacerti murari in opus listatum pertinenti all’abside di un calidarium ed ancora visibili all’esterno della chiesa attuale, nonché il ritrovamento di tegole hamatae, porta invece M. Dadea a pensare al riadattamento di un edificio termale di una villa rustica. Nel santuario erano presenti anche delle sepolture, tutte anteriori al mosaico pavimentato, le più antiche delle quali potevano essere tutt’al più contemporanee ma non certamente anteriori al selciato di cocciopesto sul quale insistevano. Fra queste tombe fu ritrovato anche il presunto sepolcro del martire Sperate, da individuarsi in quella sepoltura posta a sinistra dell’attuale altare maggiore, di cui oggi è visibile solo il cassone rivestito di malta di calce.
Età moderna La presenza di tombe nelle chiese, ammessa dal progressivo venir meno del divieto delle XII Tavole, rimase una costante fino all’editto di Napoleone, recepito a San Sperate solo nella seconda metà dell’800, quando venne edificato l’attuale cimitero extraurbano. Fino ad allora, era il sagrato intorno alla chiesa di San Giovanni ad ospitare il riposo eterno degli Speratini. L’ultimo concittadino che vi trovò requie fu Raffaele Lixi, inumato il 22 gennaio del 1885, all’età di 85 anni.