Ad una Sardegna incantata, regno di mezzo fra sogno e realtà fa eco, nell’immaginario collettivo, un’isola ricca di mistero e fascinazione oscura, in cui forze primigenie operano da sempre per conto degli uomini o a loro totale insaputa. In questa dicotomia ontologica si staglia, da più di secolo e mezzo, la controversa figura de S’Accabora, ora innalzata agli altari della storia come relitto di un’antichissima società matriarcale, ora relegata a ruolo di pura invenzione folkloristica, facendone il corrispondente antropologico dei falsi bronzetti ottocenteschi, definiti poi dal Pais “idoli falsi e bugiardi”.
A riaprire la vexata quaestio e conferirle, probabilmente, una definitiva prospettiva storica è la fatica letteraria firmata da una variegata squadra di medici e premiata con il Premio Alziator 2022: “Accabadora. Mito e Realtà. Storia e reperti di un ritrovamento”.
Uniti dall’amore per la storia e le tradizioni Sardegna un oftalmologo (Aldo Cinus), un medico legale (Roberto Demontis), un cardiologo (Augusto Marini), un odontoiatra (Mario Staffa) con una solida introduzione storica di Gianfranco Tore, hanno dato vita ad un’avvincente inchiesta scientifica che parte con una confidenza sussurrata tra le mura di uno studio cardiologico.
La scoperta
Augusto Marini è un medico all’antica che mette così a proprio agio il paziente che spesso quest’ultimo è portato a condividere con lui qualcosa di ben più significativo dei suoi sintomi. Così il cardiologo appassionato di Sardegna scopre dell’esistenza di uno degli strumenti che, in tutti i racconti popolari, faceva parte del corredo di lavoro de sa femmia accabadora: su mazzolu, detto anche mazzocca. Si dipana così un’emozionante ricerca che porterà al ritrovamento del pertugio in cui questa antica sacerdotessa conservò e preservò dall’oblio is prendas a lei più care: un tronchetto di legno avvolto in ritagli di giornale riportanti gli anni di pubblicazione intorno al 1920; un rosario; una moneta da dieci centesimi databile ai primi del Novecento; un dente umano; sei marche da bollo da 0,30 centesimi e un foglio di carta ripiegato in quatto parti, recanti a matita nove nomi di persona fiancheggiati ciascuno dal numero uno.
Il misterioso elenco
I nove nomi riportati sono di certo l’aspetto più misterioso del ritrovamento. Scritti a matita dalla medesima mano (come la perizia calligrafica ha confermato) i nomi – che sembrano indicare persone di ceto comune per i sette noni, mentre in due casi sembrano afferire a persone di una classe sociale più elevata – altro non possono essere che i riferimenti alle vittime del pio ufficio compiuto da s’Accabadora.
La certosina ricerca presso gli archivi Arcivescovili di Cagliari ha permesso di ricostruire oltre le località di origine e morte di alcuni loro – tutte limitrofe al paese in cui la donna vivete e, verosimilmente, operò – anche la loro età. Il più giovane paziente sembrerebbe essere Piereddu, deceduto nel 1919 all’età di quattro anni, mentre la palma del più anziano spetterebbe ad Antiogu giunto a 75 anni nel 1914.
Strumenti e modalità lesive
Su mazzolu, che di fatto ha dato il là a questa appassionata e appassionante ricerca storico-scientifica, è risultato una miniera di informazioni e conferme, a partire dalle tracce ematiche rinvenute. È stato possibile così stabilire che si tratta di sangue umano appartenente ad un individuo di sesso maschile, cui su mazzolu ha inflitto un trauma diretto con conseguente sanguinamento, prova inequivocabile di un uso non solamente coreografico dello strumento, come da diverse parti sostenuto.
Ma chi realizzò questo terribile strumento di morte? In considerazione del fatto che l’antica arte della buona morte rientrava nella sfera dell’omicidio è improbabile che l’oggetto venisse commissionato ad un artigiano esperto: più probabile, invece, una realizzazione diretta dell’operatrice, come sembrano confermare l’approssimazione della forma, la mancanza di rifiniture e le tracce di ripetuti tentativi di modellare il legno che hanno prodotto gradini longitudinali sulla parte del battente.
Eppure quella della morte con corpo contundente appare fra le meno probabili modalità di soppressione del paziente da parte de s’Accabadora, che doveva evitare in ogni modo che rimanessero prove evidenti sui corpi delle persone che le venivano affidate. Da scartare, dunque colpi contundenti nel cranio, che avrebbero provocato grandi perdite di sangue difficilmente occultabili, mentre i meno eclatanti effetti della lesione spinale o di una stimolazione del sistema nervoso provocata da colpo inferto dal martello ligneo nella regione nucale, lasciano ipotizzare questo come modalità di uso più probabile per la mazzocca.
Tra le altre possibili prassi di somministrazione della morte era probabile la lesione del dente dell’epistrofeo, con l’utilizzo de su juale posto sotto la nuca del moribondo la cui regione frontale, colpita da mano abile, avrebbe determinato una iperestensione del capo con conseguente frattura della seconda vertebra cervicale, foriera di morte ma anche solo di una tetraplegia.
Di fatto tutte le modalità sinora accennate comportavano però una percentuale di rischio alto in termini di non riuscita o di evidenti tracce di reato, per cui è il soffocamento – attraverso utilizzo di mezzo soffice – la norma nell’agire de s’Accabadora.
Il Rosario
Sacerdotessa della morte o pia dispensatrice di pace eterna, sa femmia Accabadora operava in un contesto sociale profondamente religioso, come testimoniano il rosario e le pagine della rivista ritrovate nel pertugio segreto della sua casa.
“Invoca il Santo e ottiene la guarigione del bambino” o ancora “L’Anno Santo 1926” sono alcuni dei titoli degli articoli ritrovati tutti relativi al periodico “Dio e il Prossimo”, che dipingono la figura di un’anima devota che viveva la sua azione terminale all’interno e non in contrasto con lo spirito religioso cristiano.
Non si dimentichi infatti che secondo le testimonianze raccolte, si ricorreva ai servizi di questa singolare figura solo nei casi in cui per il moribondo non vi fosse alcuna speranza di guarigione o le sofferenze fisiche fossero umanamente insopportabili, mai nei casi in cui la medicina dell’epoca offrisse rimedi più o meno validi. E ad accompagnare la sua azione misericordiosa doveva essere una solida Fede, rappresentata da qual rosario che verosimilmente portava con sé recitandolo lungo la via o al capezzale del moribondo.
Solitudine e riservatezza
Nell’ottica del tempo, l’operato di queste donne garantiva morte dignitosa e rapida per il paziente, sollevando ad un tempo i familiari da ogni forma di responsabilità umana e religiosa. Per queste ragioni s’Accabadora veniva convocata con grande riserbo in genere la notte e non permetteva a nessuno di assistere al suo macabro rito.
E poiché la sua condotta atteneva al sacro quando alla sfera della pietà umana, un’altra prescrizione doveva essere rispettata perché ella potesse agire con efficacia: la rimozione di tutte le immagini sacre dalla camera in cui giaceva il malato e degli scapolari che fossero a diretto contatto con lui.
Ad essere in lotta erano infatti due forze antiche: quella rappresentata da s’Accabadora che perpetuava un antico rito di ritorno alle viscere della terra, dimora ancestrale della Dea Madre e quella cristiana della sofferenza come mezzo di espiazione terrena dei peccati più gravi.
Su jualeddu
Punto d’incontro fra queste due linee del sacro era proprio uno degli strumenti attributi tanto alla fase di diagnosi che a quella operativa de s’Accabadora: a un modellino di giogo di circa 20 centimetri di lunghezza, chiamato jualeddu sulla cui funzione pratica si è detto nelle modalità lesive di azione. Ma il ruolo di questo strumento era simbolico ancorché pratico. Si credeva infatti che a tardare la morte di un malato terminale potesse una grave colpa commessa nell’ambito dell’attività agricola, come spostare le pietre di confine o rubare un giogo, strumento fondamentale nella vita delle società agro-pastorali come quella sarda.
E poiché secondo i dettami delle pratiche magiche similia similibus curantur si attribuiva alla ricostruzione in scala miniaturistica del giogo il potere di assolvere il moribondo dalla sua colpa. Per tre giorni e tre notti su jualeddu, posto sotto il cuscino del malato, avrebbe garantito il passaggio al mondo dei morti del reo o si sarebbe stagliato a custode invalicabile per l’innocente, cui solo il pio uffizio della sacerdotessa della morte avrebbe potuto accelerare il trapasso ad altra vita.
Un mistero risolto?
L’indagine condotta dal brillante pool di esperti sembra aver dato finalmente ragione dell’annosa questione su questa figura sempre al limite fra mito e realtà.
Solide appaiono, infatti, le prove a suffragio di una figura storica, attiva fino ad almeno l’inizio del Novecento che viveva in comunità spesso povere e di periferia, temuta e rispettata. Di grande sentire religioso, più frequentemente vedova, svolgeva spesso l’attività de sa levadora, incarnando quel duplice – e apparentemente inconciliabile – ruolo di dispensatrice di vita e di morte ad un tempo, che atteneva da millenni al culto della Dea Madre mediterranea.
Sacerdotessa senza più altari, fattrice di vita o donatrice di pace eterna, non lasciava prove del suo operato ai vivi né traccia di sé ai posteri, destinandosi così volontariamente all’oblio. Almeno fino ad ora.
Decisa a preservare i beni più cari che possedeva tanto dagli sguardi indiscreti che da profanazioni future, s’Accabadora senza nome riscoperta da Aldo Cinus, Roberto Demontis, Augusto Marini, Mariano Staffa e Gianfranco Tore, scelse però non di distruggerli con il fuoco come è prescritto per gli oggetti sacri non più utilizzabili, ma di nasconderli alla vista del mondo. Come un antico scusorgiu, destinato solo ai futuri prescelti dalla divinità protettrice, affidò ad una nicchia sapientemente celata, is prendas di una professione che l’aveva consacrata ad essere dispensatrice volontaria di morte, ma di una morte sospirata e piamente invocata.