“Erbe velenose e sconvolgenti riti di morte; idoli infernali ed eutanasie niente affatto dolci: questo e molto altro dietro il sardanios ghelos, giunto sino noi nella versione più familiare e rassicurante de s’arrisu cun crasciou. E stigmatizzato nel ghigno beffardo delle maschere apotropaiche puniche, ossimoro artistico del senso del tragico e della morte.”
Funzione Ma soprattutto destinate a sconfiggere, ad allontanare il male, in ossequio a quel principio inibitorio della magia secondo cui similia similibus curantur: l’orrido scaccia il demoniaco perché con esso condivide la capacità di terrorizzare. I demoni hanno timore solo di se stessi e la valenza apotropaica delle maschere risiede proprio nell’essere magnifici ritratti, immagini riflesse nello specchio del tempo di quei mostri che sono chiamate a sconfiggere. Non sorprende quindi che la maggior parte degli esemplari noti provenga da contesti funerari: chi più del defunto necessitava di protezione e sicurezza? Chi più della nephesh, dello “spirito delle ossa” (il principio elementare che non abbandonava mai il corpo) rischiava di essere disturbata nel suo sonno eterno da creature terrene (profanatori di tombe) o da spiriti immondi? Chi se non l’anima superiore, quella intellettiva, abbisognava di costante protezione lungo il viaggio che l’avrebbe accompagnata nel sereno regno dei trapassati? Ecco quindi che un esercito magico presidiava le tombe fenicie: armi (dalle punte di lancia alle spade, dai giavellotti ai pugnali), ma anche amuleti, gioielli, balsamari ed unguentari, cibo e vestiario, per una difesa che passava anche, e soprattutto, dalla sopravivenza. Ma è senz’altro alle immagini demoniache rappresentate da maschere e protomi (volti privi di aperture in corrispondenza degli occhi e della bocca) che spettava la funzione principe di deterrente contro il male, incarnato dalle ombre dei rephaim.
Uso rituale? La vecchia ipotesi, secondo la quale le maschere sarebbero state accostate al viso dei morti (come testimoniato in antichi riti egiziani e micenei), non gode più di credito in ambito scientifico per via delle dimensioni ridotte rispetto al naturale della maggior parte degli esemplari. Il ritrovamento invece di un modello a terra, ai piedi della scala di accesso e davanti alla soglia d’ingresso di una camera funeraria, col viso rivolto al cielo, ne mostra l’inequivocabile funzione scaramantica. Rimarrebbe però da chiarire la finalità dei forellini in margine a queste maschere. Per ora la spiegazione più convincente è quella proposta dal Lilliu, secondo il quale esse sarebbero state applicate ad un palo o ad un manichino e portate in processione, alle spalle del feretro, nel corteo funebre, prima di essere esposte nella tomba.
Origine Diffuse in tutto il medio oriente già dalla fine del II millennio a.C., le maschere ebbero una particolare fortuna in tutta la fascia costiera della Fenicia a partire dal IX secolo e sembrerebbero rappresentare Kumbaba. Questo terribile mostro mesopotamico, sconfitto da Gilgamesh con l’aiuto di Enkidu e dal dio del sole di Shamash, era oggetto di potenti scongiuri nel mondo accadico, mentre nell’universo fenicio, con un netto spostamento di significato, gli fu attribuito una chiara valenza apotropaica. Nel passaggio dall’oriente alle colonie fenicie dell’occidente, le maschere assunsero alcuni tratti caratteristici di innovazione e dal tipo virile si giunse a quello “grottesco”, che in Sardegna vide la predominanza dell’esemplare ghignante: “testa calva, viso glabro, guance e fronte tatuate, grandi occhi forati, larga bocca ghignante o digrignante, orecchie enormi, anello nasale”.
La maschera di San Sperate Il più antico esemplare noto nell’isola, proviene da una delle necropoli di San Sperate, quella di Bia de Deximu Beccia. Fu ritrovata nell’Ottocento dal Vivanet: di color beige chiaro, caratterizzato da una resa naturalistica delle orecchie (forate per ospitare gli orecchini) e dall’enigmatico sorriso ghignante, fu probabilmente opera di un artista cartaginese e databile intorno al 520 a.C. “Se mancassero altri elementi basterebbe la presenza dell’anello nasale a documentare la punicità di questa terracotta. Non è facile assegnarle una data, fondandosi sui caratteri dell’arte”, così Gennaro Pesce, uno dei massimi esperti dell’archeologia fenicio-punica sarda. Ma è proprio così?
Sardanios ghelos Cosa rappresentano le incisioni lungo le guance e la fronte? Rughe profonde, presumibile indicazione di volti di vecchi o semplici tatuaggi? E quell’espressione ghignante, è forse stigmatizzazione di un sorriso forzato, a denti stretti, di quel sardanios ghelos tanto celebrato dalle fonti antiche? La tentazione di vedere un parallelo è forte, tanto più che per molti autori antichi il riso sardonico sarebbe strettamente legato al mondo punico ed ai sacrifici umani. Ma se il mondo accademico sardo è reticente ad ammettere simili legami, di ben altro avviso è quello siciliano: l’esemplare ritrovato a Mothia viene indicato come tipico esempio di rappresentazione del riso sardonico! Eppure la mascherina siciliana non solo è molto più vicina a quella di S. Sperate che non a quelle di provenienza cartaginese, ma soprattutto è di un livello qualitativo inferiore a quella sarda. Si potrebbe quindi pensare alla mano di uno stesso artista operante in Sardegna, i cui lavori funsero da modello per quelle africane, che, in realtà, non possono essere collocate prima del V/ IV? In base a quale criterio, infatti, considerare Cartagine madre patria della celebre maschera speratina, se in Africa reperti simili sono datati a quasi un secolo più tardi? Non sarebbe piuttosto il caso di ammettere un tratto del tutto originario e innovativo (ma soprattutto locale), nella felice mano che realizzò quel reperto divenuto icona di una comunità nel mondo intero e vedere nell’isola un’apripista del genere artistico delle maschere ghignanti?
Forse i tempi sono davvero maturi, se anche una semplice maschera può contribuire alla riabilitazione della Sardegna dopo la damnatio memoriae a cui è stata condannata dalla storiografia ufficiale per secoli..