Pubblicato in Orticedrus, Aprile-Ottobre 2020
Banditi per caso o per nascita. Letteratura e antropologia culturale.
Il caso Deledda
Il rapporto tra antropologia culturale e letteratura fu particolarmente stretto tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo. Quando, infatti, nel 1927 Grazia Deledda fu insignita del premio Nobel per la Letteratura, la motivazione della sua vittoria fu un chiaro riconoscimento alla sua vena artistica ma soprattutto alla sua capacità di far emergere lati per lo più sconosciuti della sua terra, la Sardegna: “Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano.”
Non fu dunque un caso se, l’unica donna italiana insignita del più alto riconoscimento letterario, dovesse gran parte del suo successo all’attenzione e l’interesse riposto nei confronti dell’etnografia e delle tradizioni popolari della Sardegna.
Deledda non è certamente né la prima né l’ultima rappresentante di questo felice connubio fra lingua, letteratura e antropologia, privo di omologazione ma ricco di valore unificante. La letteratura, reinterpretando il contesto estetico e linguistico attraverso il modello antropologico, infatti, fa ricorso a precisi codici dell’immaginario, della visione della territorialità e, soprattutto, quelli della tradizione. È soprattutto il concetto di tradizione a legare il modello antropologico a quello letterario.
Da Leopardi a Ignazio Silone, passando per Pirandello e D’Annunzio, gli esponenti di questo filone si annoverano nel parter dei grandi di tutti i tempi.
La fase più antica di questi incursioni è verosimilmente quella pre-illuminista, in cui la lingua, recuperata come paradigma etnico nella variante dialettale, battezza la demo-etnoantropologia.
Poiché lo scavo sul territorio, giunge fino alle radici della memoria, non sorprende che sia soprattutto la letteratura meridionale a divenire letteratura antropologica, in quanto solo attraverso l’antropologia, la pratica letteraria può raggiungere una ricerca matura della memoria e della identità.
Questa considerazione si incarna perfettamente nella scrittrice sarda. Non c’è un solo scritto di Grazia Deledda da “Canne al vento” al “Paese del vento” a “La madre” a “Cosima”, in cui l’antropologia religiosa non si fonda col fatalismo e la magia della religiosità nella descrizione di un universo regionale in cui la letteratura sia essa stessa etnia, espressione di un processo culturale che fa riemergere un vocabolario linguistico che pur radicato nella tradizione, trova le sue radici nella innovazione.
Banditismo sardo e rifiuto delle teorie sull’inferiorità delle genti meridionali
Grazia Deledda sollecitata da Angelo De Gubernatis, si occupò attivamente di etnologia e etnografia: della collaborazione con la “Rivista di Tradizioni Popolari Italiane”, il risultato più eclatante fu rappresentato dalle undici puntate delle “Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna”, in cui la scrittrice pubblicò solo una piccolissima parte del materiale raccolto in circa cinque anni di lavoro. La scrittrice si occupò di indagine antropologica ancora nel 1901, quando orami sposata e nota al grande pubblico, viveva a Roma con il marito: in quell’anno pubblicò “Tipi e paesaggi sardi”, un resoconto di viaggio apparso ne “ La Nuova Antologia” in cui, con il tipico spirito del ricercatore di culture primitive, descrive stupita l’arretratezza delle infrastrutture e dei mezzi trasporto e gli impareggiabili silenzi del lungo viaggio verso casa. Il pretesto del resoconto di viaggio fornì alla Deledda l’occasione per una minuziosa descrizione storica e geografica del Logudoro, attingendo a autorevoli fonti scientifiche (Della Marmora e Manno) e popolari, in modo particolare per quanto riguarda le tradizioni popolari e le notizie di cronaca nera. Durante il suo soggiorno a Nuoro, un latitante sardo venne ucciso nelle campagne della città, fornendo il pretesto alla scrittrice per una dissertazione culturale sul banditismo nell’isola che le permise di confutare le posizioni fortemente razziste di Niceforo e Orano, che qualche anno prima aveva accolto con entusiasmo nel suo tentativo di sprovincializzazione culturale.
In seguito alla visita in Sardegna nel 1896, Niceforo pubblicò “La delinquenza in Sardegna”, che teorizzando l’inferiorità congenita dei meridionali e rafforzato nelle sue tesi da Orano con la sua “Psicologia della Sardegna”, scatenò un grande dibattito nel mondo scientifico e culturale italiano dell’epoca intriso delle posizioni positivistiche di Cesare Lambroso. Lo studioso, primo esponente di una scuola di pensiero che riteneva di poter ridurre a dati misurabili tutta la realtà umana, in modo particolare quella deviante, sosteneva fermamente che i criminali portassero sul volto viso gli tracce della loro degenerazione.
La teoria si fece piede anche in ambienti prettamente scientifici e il direttore del manicomio di Cagliari, il professor Giuseppe Sanna Salaris pubblicò uno studio relativo a cento fra gli arrestati più famosi, che vennero sottoposti ad un’indagine psicologica e attitudinale, accompagnata da una metodica misurazione del cranio. Dall’indagine sarebbe emersi queste caratteristiche morfo-sociologiche del tipo “bandito sardo”: età tra i 21 e i 30 anni; altezza fra 1,56 e 1,65 m; professione pastore per il 60 per cento dei casi.
Fra i partecipanti allo studio di caso si annoverarono alcuni tra i nomi saliti agli onori delle cronaca nera dell’epoca: gli spietati nemici giurati di Orune Dionigi Mariani e Giovanni Moni Goddi; Giuseppe Budroni, la cui crudele malvagità era diventata leggenda; Giovanni Maria Astara di cui viene rimarcata la tendenza a roteare “gli occhi all’ingiro e con essi spesso la testa, quasi vada in cerca, nella cella, di una via che gli permetta di rintanarsi nel bosco”; Francesco Campasi che viene additato per lo strano connubio di Fede e depravazione sessuale: “è credente in Dio e nei preti; in compenso è un vero satiro e durante la sua latitanza ha deflorato in aperta campagna parecchie lavandaie, mentre i compagni gli guardavano le spalle”.
La Deledda, in risposta a questo clima di forte denigrazione delle genti sarde, disegnò un quadro del banditismo isolano – della Barbagia soprattutto – molto più legato alle difficili condizioni economiche e sociali che non alle supposte origini genetiche dei pastori nuoresi. Per confutare, benché in modo indiretto, le teorie di Niceforo e Orano si attardò in una insolita descrizione della bellezza fisica del bandito e della assoluta regolarità dei suoi tratti fisiognomici. Ed ancora, quando riportò la giocosa giovinezza dei abitanti di un villaggio durante una festa campestre, rimarcherà convinta la bellezza della sua gente:
“Oggi guardano il ballo sardo composto da un circolo di uomini e donne sorridenti, e domani forse dovranno arrestare uno di quei bellissimi tipi da imperatori romani che cantano una gara estemporanea il cui soggetto è la bellezza delle donne accorse alla festa”
La necessità di restituire il legittimo onore alle genti barbaricine verrà rimarcata anche nella puntuale attenzione alle caratteristiche fisiche dei giovani pronti per la leva militare:
“…non tutti questi giovani sono belli, parecchi anzi sono piccolissimi di statura e sembrano di razza degenerata, ma tutti hanno una fisionomia speciale, piena di arguzia e d’orgoglio, con occhi luminosi. Vestono tutti delle sopragiacche di pelle giallognola, talune delle quali finemente lavorate”
A discapito di un’opinione pubblica che demonizzava i sardi come banditi nati, numerose erano le attestazioni di ammirazione delle genti locali per questi fieri rappresentanti del disagio sociale delle campagne dell’interno. Non di rado, infatti, fiorivano leggende che abbellivano di particolari eroici le loro gesta, spunto per poeti e cantastorie che le musicavano facendone, di fatto, eroi senza tema in difesa della dignità di un’intera nazione. Ad essere esaltata era soprattutto la balentia, la fiera dimostrazione di coraggio che non retrocedeva di fronte a nessun ostacolo e diventava il segno distintivo del comportamento del vero bandito sardo rispetto a un delinquente comune: da assassino a difensore degli oppressi, il passo è breve.
Quasi a volerne alimentare il mito, la Deledda stigmatizzerà così la figura di Loviccu, ultimo superstite del conflitto di Morgogliai avvenuto nel 1899, nel territorio di Orgosolo:
“Questo bandito, e uno dei più feroci della famosa squadriglia che per parecchi anni fu il terrore della Sardegna, viene ammazzato agli ultimi di luglio quando mi trovo a Nuoro. Questo feroce eroe si chiamava Lovicu, era nativo di Orgosolo… ed era un bellissimo giovane, non privo di intelligenza e astutissimo”. Ancora una volta la bellezza viene rimarcata come elemento geneticamente contrapponibile alle teorie fisiognomiche di Lambroso.
Fra i particolari degni di nota nel vestiario del latitante, l’autrice sottolinea con stupore l’assenza di amuleti, “indosso al cadavere non fu rinvenuto alcun amuleto, alcuna croce, nessun libro di preghiere: solo un libro di canzoni sarde…perforato dalle palle”, indicando un netto distacco dalla tradizione locale che prescriveva l’uso di talismani in stoffa con i brebus (lett. “parole” ma nel senso greco di logos, verbo che agisce) per protezione e difesa, e sottolineando, al contempo, lo status quasi da eroe romantico del Lovincu, incarnato dal libretto di canzoni sarde in cui, verosimilmente, erano cantate le sue stesse gesta.
Se è vero, dunque, che Grazia Deledda abbia partecipato significativamente alla mitopoiesi dei balentes, alla loro divinizzazione sociale e – in qualche misura – culturale, va ricordato che lo fece in risposta ad clima impregnato da una diffusa mentalità morfogenetica – triste preludio alle teorie di superiorità della razza che da lì a qualche anno avrebbero causato milioni di morti – cui pure in giovane età aveva superficialmente aderito, come mostra la dedica a Niceforo e Orano del romanzo “La via del Male”:
“Ad Alfredo Niceforo e a Paolo Orano, che amorosamente visitarono la Sardegna”.