A volte il sole sorge la sera. Una storia semplice

famglia_usaiNonna Maria è morta il 14 gennaio 2008 con una serenità ed una compostezza paragonabili, per intensità, solo alla lunga agonia che l’ha preceduta. Nulla di eroico, nulla di eccezionale, solo dignità e pace si levavano da quel viso ormai ridotto ad una pallida e sbiadita parvenza della floridezza di un tempo. Solo qualche accenno all’incrollabile Fede che l’aveva sorretta per tutta l’esistenza, si poteva scorgere dal suo volgere per l’ultima volta lo sguardo verso il soffitto, immago di quell’agognato Cielo, in cui l’attendeva il ricongiungimento, questa volta davvero definitivo, col suo amato Vincenzo. Nonno l’aveva preceduta di quasi 14 anni, e con lui era andata via l’illusione di poter fermare il tempo, di poter meritatamente godere i frutti di una dura esistenza, fatta di lavoro, qualche stento ed enormi sacrifici, ma soprattutto di profondissimo amore. Amore per il marito, continuamente rimbrottato quanto adorato, per i figli, cui, da autentica mater familias, non smise mai di impartire ordini e direttive; per i nipoti suo vanto e orgoglio, ed i pronipoti Noemi, Daniele, Simone, Gioia e Giorgia, fonte di nuove e quotidiane motivazioni di vita . “Su Signori non mi dada a fai sa gratzia de mi lassai fintzasa a su Battiari?” e vista la generosità del Padre Eterno, subito una nuova richiesta si levava verso il Cielo: “Assumancu de dusus podi bì andendi a s’asillu!”.

L’esistenza umana è per sua natura fatta di tappe da raggiungere e traguardi da superare, di conquiste da assaporare solo per quell’istante che precede il desiderio di valicare il nuovo limen faticosamente conquistato; poco importa che esso sia rappresentato da una grande impresa sportiva, dall’ennesima scoperta scientifica o da un significativo progresso in campo lavorativo; che porti migliorie all’intera umanità o fornisca unicamente un attimo di felicità ad un singolo essere umano: l’idea di non aver portato a termine ogni progetto, il convincimento che ci sia ancora un piccolissimo e apparentemente insignificante obiettivo da raggiungere è condicio sine qua non della vita stessa.

In nonna Maria questa ansia di vita regalava, a chi le stava intorno, uno stimolo continuo, talvolta un vero e proprio pungolo che, impedendo di adagiarsi sugli allori, costringeva a rialzarsi subito dopo le cadute e reprimeva lo scoramento. Non c’era né tempo né spazio per piangersi addosso o lasciarsi andare, in fondo c’era sempre un’altra possibilità: “Chi si serrada una potta, mancai si oberridi unu pottabi”; era l’esistenza stessa a fornire le opportunità e le evenienze, spettava a noi, però, saperle cogliere e trasformare ogni sconfitta in una nuova occasione di riscatto. Neppure la morte poteva porre fine alle speranze, da buona cristiana credeva fermamente che la comunione dei morti concedesse incommensurabili occasioni di miglioramento, accordando la pace eterna ai defunti mediante i nostri atti e le nostre preghiere e permettendo a noi vivi di ricorrere alla loro potente intercessione: “ Non ti preoccupisi, allueusu una candeba a sa Madonna: ci ada pensai Issa”. E così la prima telefonata dopo un esame superato all’università era rigorosamente per lei, la cui voce prima profonda e preoccupata si tramutava repentinamente in gioioso e commosso ringraziamento a Dio, che aveva esaudito le sue suppliche, e a me che non avevo dimenticato di informarla tempestivamente e per prima. Solo dopo di lei venivano fidanzato e familiari.

Un legame strettissimo, un vincolo di sangue che l’amore ha trasformato in affinità elettiva, in indissolubile e meravigliosa catena, i cui anelli aumentano di numero e consistenza anche ora che non posso più stringerla forte, asciugarle le lacrime e rivedere il suo volto illuminarsi quando, varcata la soglia di casa, le rispondevo: “Sono io, nonna, Manuela!”

Eppure lei per tanti anni non era stata la mia “nonnina”, la mia migliore amica, la mia più entusiasta sostenitrice e la più critica delle osservatrici; no, per molto tempo era stata solo una nonna, cara e affezionata, ma troppo severa e distante per poter reggere il confronto con Anita, nonna Annita, lei sì perfetta incarnazione della maternità, tanto nella mole che ricordava tante statue di dee madri, quanto nel suo magnifico e incessante saper concedere affetto e protezione con quell’abbraccio sicuro, forte di dolcezza, dal sapore d’ambrosia. Maria – ancora miele amaro di eucalipto – sapeva e capiva, era consapevole e non forzava, mai. Aspettava. Purtroppo il suo turno giunse repentino quanto drammatico nel gelido febbraio del ’79. Nonna Anita dopo pochi mesi di intensa sofferenza, ci lasciò, vittima di un destino crudele e beffardo: lei, astemia e morigerata, assalita e vinta dal tipico male degli alcolisti. Fu proprio la consapevolezza dell’appropinquarsi della “fatal quiete” che la spinsero ad affidare alla custodia di Maria la sua prenda più preziosa, le sue adorate nipoti, sua massima preoccupazione e più grande gioia. E lei, Maria, sentendosi investita di un nuovo ruolo, volendo mantenere ad ogni costo la promessa fatta, fu sempre più presente e attenta, addirittura tenera, nonostante la sua innata rigidità e l’educazione inflessibile le impedissero ancora eclatanti e calorosi slanci d’affetto, che sarebbero arrivati solo in seguito, a suggello di un legame che si sapeva nutrire di parole e di gesti genuini e mai forzati.

Era l’inizio della quadratura del cerchio. Era il principio della rivelazione di due anime che, a dispetto dell’età e della prospettiva culturale, pur nutrendosi a mense diverse, si scoprivano l’una specchio dell’altra.

Questa è la sua storia, questa è la sua vita. Una vita, una storia semplice..