S’ogu pigau

Sa mascia de s’ogu.

gg

 

 

Brutta malattia, l’invidia. Vizio capitale, addirittura, i cui “portatori” pur collocati da Dante nella seconda cornice del Purgatorio, soffrono le pene degne dei peggiori gironi infernali girovagando con le palpebre cucite, elemosinando pietà: “..E come a li orbi non approda il sole/ così a l’ombre quivi, ond’io parlo ora/ luce del ciel di sé largir non vole.”. Un duro contrappasso, che non lascia dubbi sul ruolo fondamentale che la vista riveste in questo peccato: in-video “guardare contro”, questo l’etimo della parola, che la dice lunga sulla valenza negativa che il termine assume fin dalla sua formazione. Gli occhi da strumento di conoscenza e di apertura verso il mondo esterno a saettatori di terribili punizioni, dunque. Non aveva forse Medusa la capacità di tramutare in pietra chiunque incrociasse il suo sguardo? E non portava fino alla morte lo sguardo perfido delle donne dell’Illiria? Terra di maghe e streghe, l’Illiricum, patria di suggestioni e malia come poche altre, quanto forse solo la Sardegna ha saputo essere. Generatrice di riti, la nostra Isola, anzi essa stessa un ritus “un ordine prescritto” dei rapporti fra gli dei e gli uomini e degli uomini fra di loro, di cui la donna è sempre stata, ad un tempo, l’officiante e la vittima sacrificale. Immutabile e ancestrale, potente divinità della terra, frutto maturo di un raccolto acerbo e mai abbondante, sa femmia ne ha incarnato la grandezza e le contraddizioni. E così, tanto chini pigada ogu, quanto chi vi pone rimedio è quasi sempre una donna, che custode fedele di antichissimi riti precristiani, pratica da buon medico sa maxia de s’ogu con la quale si sconfigge anche il malocchio più potente, sa pigadura de ogu, appunto.

Ma in cosa consiste questa pratica che, pur affondando le sue radici nel mondo pagano, ha saputo integrarsi con le convinzioni più schiettamente cristiane?

“Esistono diverse tipologie di maxia – ci informa un’anziana testimone – ma le più diffuse a San Sperate sono sempre state due: quella che utilizza l’acqua benedetta, il grano e il sale; e un’altra che prevede l’olio e l’acqua”. Fra le diverse formule una delle più frequenti richiede l’utilizzo di nove chicchi di grano (della migliore qualità e compatto) e nove cristalli di sale grosso, preventivamente divisi a gruppi di tre. Questa prima fase è molto delicata ed è accompagnata da un preciso repertorio di espressioni rituali: il segno della croce ripetuto nel formare ognuno dei tre mucchietti di grano e sale (sei volte in totale), la recita del Credo e di seguito la litania: “Susanna ha fattu Anna, Anna ha fattu Maria, Maria ha fattu Gesusu, sogu pigau non ci siada prusu” (nota anche nella variante: “Susanna è mamma de Sant’Anna, Sant’Anna è mamma de Maria,s’ogu pigau non ci siada prusu”). Terminata la formula di benedizione, vengono gettati dapprima i tre gruppi di chicchi di grano (con i quali si sarà provveduto a comporre il segno della croce) e successivamente quelli di sale, sempre accompagnati dal simbolo trinitario. Per verificare se c’è malocchio è necessario osservare le eventuali bollicine formatesi sopra i chicchi di grano: la posizione (parte superiore o centrale) indicherà la patologia del “malato”, mal di testa o di mal di pancia, mentre il numero dei grani interessati alla formazione delle bolle rivelerà invece la cifra dei responsabili de sa pigadura de ogu. Qualora però al termine del rito le bollicine non fossero scomparse, si renderà necessario la ripetizione della pratica, fino ad un massimo di tre volte, superate le quali si dovrà attendere il giorno successivo oppure rivolgersi ad altre due persone che ne completino la funzione salutare con l’adempimento del rituale. Tra le prescrizioni più importanti perché la cura sia valida c’è quella de no sattai su giobia (non saltare il giovedì), la disattesa di questa condizione potrebbe avere infatti conseguenze nefaste, addirittura la morte per infarto (crepai su coru) soprattutto se si tratta di animali. Perché, sarà bene ricordarlo, neppure piante ed animali, sono immuni da questi antichi sortilegi, anzi ne sono fra i più colpiti. Così perlomeno vuole la tradizione, mantenutasi quasi invariata nel corso degli ultimi due secoli. Qualche lezione diversa è rintracciabile solo nel formulario, come sembra documentare un antico scritto autografo di Tolu Gilla, classe 1906; scomparsa nel 1986 che tramanda questa litania (ripetuta ad ogni getto di sale e grano, per un totale di sei volte): “Deusu e Santu Antiogu e deusu ti torri s’ogu e Santu Patriaccu ti torridi sacra, e Sant’Anni Battista e Santu Liberau sogu ti sia torrau..”.

Un simbolismo forte, che vanta ataviche radici. Acqua, grano e sale, emblemi di una vita povera e contadina che assurgono a portentosi rimedi salvifici, grazie alla mediazione della divinità, richiamata ad ogni piè sospinto soprattutto nella sua veste trinitaria: tre è il numero per eccellenza di questa pratica, il suo cardine e suo riferimento finale. Solo l’invincibile mediazione della Santissima Trinità può infatti garantire la guarigione, laddove i rimedi preventivi non abbiano sortito effetto. “E’ il verde l’arma di difesa per eccellenza – ricorda ancora la nostra testimone – Oggi si utilizza, soprattutto per i neonati, un braccialetto, ma in passato si ricorreva ad fiocchetto o ad una foglia infilata negli indumenti intimi. Agli uomini si consigliava invece di indossare le mutande al rovescio”.

Se sventuratamente la “prevenzione” si rivelasse inefficace, come distinguere un malessere naturale da uno indotto dal malocchio? Quale la sintomatologia più frequente? “Certamente il mal di testa – dichiara sicura l’anziana “dottoressa” – accompagnato spesso da un abbassamento della vista o dal dolore agli occhi. Ma le più esperte riconoscono sa pigadura de ogu osservando le ciglia: se sono raggruppate a mazzetti c’è s’ogu, altrimenti no. E c’è ancora qualcuno che è in grado di farlo – chiosa malinconica la nostra testimone – ma ormai siamo sempre meno”.

Una casta di sacerdotesse-guaritrici, dunque, chiusa e restia a svelare i propri segreti, tramandabili solo per linea femminile, ma ad altissimo prezzo. Il mistero che si svela chiede, infatti, il pagamento di un fio: l’impossibilità di continuare la pratica. Altrimenti la casta si fa classe e la valenza misterica del rito perde il suo effetto.

Relitto di una preistorica civiltà matriarcale che neppure i secoli della (maschilista) dominazione romana hanno saputo ribaltare del tutto, sa maxia de s’ogu non è tuttavia semplice pratica superstiziosa. Da perfetto esempio di sincretismo religioso che maschera il paganesimo con formule cristiane, ha permesso di fatto la creazione di un ponte di comunicazione con un mondo ormai estinto e dimenticato dalla storia, che pure la storia continua a farla inconsapevolmente nella ripetizione quotidiana del ritus.

2 Risposte a “S’ogu pigau”

  1. Ciao, grazie per la spiegazione. È sempre stato un mistero il procedimento che mio nonno ancora oggi, a 96 anni, pratica. Devo confessare che nell’era digitale continuo a farvi ricorso.

I commenti sono chiusi.