Santa Vittoria di Serri, la Delfi sarda.

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Un dio del cielo, del sole addirittura, si impossessò del “onfalos” del mondo. Lo sottrasse ad una divinità della terra, la strisciante dea serpente: Pithia, la Pitonessa. Apollo divenne così signore di Delfi e il mondo, da allora, fu retto da uomini. Il mondo, ma non il sacro, ancora prerogativa femminile: solo alle sacerdotesse era concesso di farsi tramite della volontà del dio usurpatore, vincitore della guerra ma non della mediazione. Assunto il titolo di Pitico, Apollo regnò per secoli nel più grande e antico santuario panellenico della Grecia. Ma Δελϕοί, in quanto δελϕύς (“utero”), rimase sostanzialmente luogo di sovranità muliebre, retto da una classe sacerdotale che aveva nella Pizia il cardine ed il fulcro. Ed all’oracolo della Pizia si inchinarono i potenti del mondo antico, incapaci di dar vita ad una guerra o di fondare una colonia senza il responso favorevole della pitonessa. Delfina, pitonessa, Pizia. Ovvero la sarda Bithia, custode dei segreti dei luoghi sacri isolani, rappresentata in alcuni celebri bronzetti provenienti dal santuario nuragico di Serri.

La giara di Serri Separato dalla giara di Gesturi dalla valle del Rio Mannu, il tavoliere di Serri si erge a 662 metri sul livello del mare a guisa di imponente rocca basaltica che sormonta i bassipiani di Mandas, Gergei ed Escolca. Su questo sontuoso pianoro, per circa tre ettari, si dipana un notevole complesso cultuale, protetto a sud/sud-ovest da un’erta pendenza naturale ed a nord-ovest da una muraglia megalitica. L’area risulta divisa in quattro zone, la prima comprendente i due templi e la “capanna del sacerdote”; la seconda il recinto delle feste; la terza il gruppo del recinto cosiddetto “del doppio betilo” ed infine l’agglomerato di E/S-E, forse legato ad un vero e proprio insediamento civile stabile. Regalmente isolati stanno invece la capanna detta “del capo”, la Curia ed altri ambienti meno facilmente identificabili.
L’evoluzione del sito Le tracce più antiche di frequentazione stabile dell’area risalgono al bronzo antico, ma è a quello medio che si fa risalire il nucleo originale del complesso che ruotava intorno ad un nuraghe (a corridoio?) con funzioni militari, inglobato poi – pur con mutata funzione – nel santuario vero e proprio forse già in uso nella fase più recente del bronzo finale. Le diverse zone del complesso subirono modificazioni e ristrutturazioni nel corso dei secoli: le sezioni orientale e Sud- orientale vennero abbandonati già tra il IX e l’VIII secolo a. C., benché anche sotto la dominazione cartaginese il sito venisse ancora utilizzato come santuario.
L’ultima fase di vita dell’impianto cultuale sembra collocabile intorno al II sec. d. C. Fu un violento incendio a porre la parola fine alla millenaria storia del santuario. Secondo il Taramelli, che vi condusse le prime campagne di scavo, si tratterebbe di un celebre episodio ricordato dalle fonti antiche ed avvenuto intorno al 177 a. C: i romani avrebbero fatto strage di locali che erano soliti riunirsi per feste comunitarie della durata di parecchi giorni. In seguito i dominatori vi lasciarono uno stanziamento militare che si mantenne fino all’età bizantina, quando sorse l’eponima chiesa di Santa Vittoria, oggi visibile nella ricostruzione di epoca giudicale.
Il Santuario L’epoca di massimo splendore del sito fu certamente quella alla fine dell’età del bronzo, durante la quale il santuario divenne meta di pellegrinaggio da tutte le parti dell’isola. La felice posizione – nel limes dei territori pianeggianti di Marmilla e Campidano e di quelli montuosi della Barbagia – ne favorirono la crescita e lo sviluppo. Cuore vivo di tutto il complesso fu certamente il pozzo sacro, locus maximae devotionis per il salvifico culto delle acque. Ad attestarlo, numerosissimi rinvenimenti di ex voto in bronzo, vero e proprio campionario della variegata società nuragica: principi paludati che impugnano il bastone del comando; pizie locali velate da ampi mantelli; militi armati o più umili contadini che recano l’offerta del pane o delle primizie. Ma soprattutto quelle meravigliose immagini di “pietà” preistoriche, proiezioni senza tempo del dolore inconsolabile e della cieca speranza nell’intervento divino. Ed è a questa teoria di uomini e donne che era dedicata una delle zone più significative dell’intero impianto: il recinto delle feste, un vasto piazzale porticato (destinato ad ospitare e rinfrancare i pellegrini), che fungerà da prototipo (e modello?) delle più recenti cumbessias ancor oggi presenti in corrispondenza di un altro celebre pozzo sacro, quello di Santa Cristina.
Al di là del temenos del tempio a pozzo, si dipanava un vasto spiazzo trapezoidale, contornato da numerosi edifici probabilmente cultuali: dal cosiddetto tempio ipetrale, a pianta quadrangolare – probabilmente un sacello a cielo aperto – alla capanna dell’altarino, fino alla più maestosa capanna del capo, costituita da un atrio e una camera circolare.
Il villaggio Una serie di strutture – disposte nella parte Est Sud-Est dell’area – sembrerebbero invece compatibili con abitazioni, benché fossero stati interpretate dal Taramelli come luogo di dolore e morte. Si tratta del cosiddetto “Recinto dei Supplizi”, in cui – secondo questa teoria ormai superata – sarebbero stati “racchiusi gli individui colpiti da giudizio”, cui sarebbe stata comminata “una pena corporale o quella capitale, con la iugulazione o la decapitazione tra i due pilastri dell’ingresso”..
L’ultimo edificio che si incontra nell’agglomerato orientale, fu certamente il polo civile ed amministrativo dell’intero complesso: la Curia. Caratterizzata da un pianta circolare di 11 metri di diametro, con un unico ingresso, era dotata di una sorta di baldacchino anulare in calcare per i rappresentanti del popolo che erano “assisi sui seggi di pietra”. Un luogo più appartato, “ fuori completamente dal complesso architettonico destinato alle feste, lontano dal rumore di queste ultime, nella pace del bosco”, in cui i “Parlamentares” nuragici potevano discutere di alleanze, patti e guerre, sotto la vigile sorveglianza della divinità.
Il massimo sforzo organizzativo, tendente a far coagulare la solidarietà popolare e nazionale della società del tempo, si coglie dunque in questo santuario:

“La giara di Santa Vittoria di Serri è un “altare” al quale guardavano le genti nuragiche della Trexenta, della Marmilla e del Sarcidano con quel senso di religiosità che animava le comunità greche nei confronti dei celebrati santuari panellenici di Olimpia e Delfi.”.

Così il compianto sardus pater,Giovanni Lilliu, su uno dei luoghi più carichi di misticismo della preistoria sarda.
E se sul pronao del tesoro eretto a Delfi dagli abitanti di Cnido, svettavano imponenti le massime dei Sette Saggi – Conosci te stesso; Evita ogni eccesso; Guardati dalle esagerazioni; Quando una città si sente sicura, è allora che comincia a decadere; Disgraziato è soltanto chi non sa sopportare le disgrazie – le perle di saggezza dei nuragici furono affidate, a Serri, ad un più plastico alfabeto: i bronzetti.