Sa limba sarda, una questione tutta da definire

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Il labirinto di Dedalo a confronto è un’autostrada a otto corsie. Perché a raccapezzarsi con la questione de sa limba, c’è davvero di che perdere la bussola. Unici fari, in questo mare tempestoso, gli studiosi (linguisti, filologi e storici), dai quali è impossibile prescindere se si vuole arrivare a un approdo sicuro. Una certezza però ce l’abbiamo: il sardo è una lingua, non un dialetto dell’italiano.

E’ così professor Virdis? Nell’elegante salotto che ci ospita, cala, per qualche frazione di secondo, un silenzio preoccupante. Perché se così non fosse, davvero sarebbe necessario ricorrere all’intervento di Arianna, se non per uccidere, almeno per scampare al Minotauro.

«Ci si dovrebbe accordare con chiarezza su che cosa si intenda per lingua e che cosa per dialetto. Il sardo, infatti, pur possedendo tutti i caratteri originali di un idioma, mantiene la funzione sociale propria di un dialetto» chiosa il docente di Filologia romanza dell’Università di Cagliari. «E’, in altri termini, una lingua che però è relegata al ruolo di dialetto». Sospiro di sollievo: sa limba non è tale solo di nome.

Una lingua romanza a tutti gli effetti dunque, da porre nel novero delle più conservative, come spesso si afferma?

«Questo è uno dei tanti luoghi comuni» chiarisce con grande competenza, il filologo. «A ben guardare, per quel che concerne il lessico, risulta particolarmente conservativa solo la parte inerente la terminologia agro-pastorale».

E così, un altro pilastro del castello delle nostre convinzioni crolla impietosamente sotto gli inesorabili colpi della scienza. Ma, confortati e sorretti dalla competenza del nostro interlocutore e non intimoriti dai trabocchetti dei luoghi comuni in cui a volte ci imbattiamo, incalziamo con l’ennesima domanda.

La significativa presenza di numerose varianti locali (pur riconducibili in gran parte alla due varietà principali, il campidanese e il logudorese), che conferiscono alla limba una indubbia ricchezza ma anche un’innegabile frammentazione, ne precludono l’unitarietà?

«Sarebbe più corretto affermare che alle numerose varianti locali non corrisponde un sovra codice comune, una lingua sovralocale, ruolo che, per intenderci, svolge l’italiano in rapporto ai suoi dialetti: nel nostro caso paradossalmente esistono solo i dialetti ma non l’idioma cui sottendono. In questa accezione è evidente che non si può parlare di unitarietà». Almeno riguardo a questo punto lo status quaestionis sembra chiaramente definito. «Diversa è la problematica relativa alle modalità di formazione delle singole varianti, nonché a quale di queste vada assegnata la palma della maggior tendenza al conservatorismo. Anche su questo aspetto i miti da sfatare sono tanti» ribatte il professore. «Sostenere, infatti, che al logudorese spetti tale primato è vero solo in parte e soprattutto in relazione alla fonetica. D’altronde esso, in virtù di una penetrazione romana più recente rispetto a quella del Campidano, deriva da un latino più tardo: se dunque tale variante può dirsi più conservativa lo è però rispetto a una lingua madre paradossalmente meno antica».

L’intricata matassa che va via via dipanandosi, dà progressivamente vita a un quadro d’insieme vario e articolato di una limba, in cui sono rintracciabili relitti dei sostrati linguistici pre-romani: è così, professor Virdis?

«Certamente. Non solo relitti punici: (míttsa = sorgente, tsikkiría = sorta di aneto simile al finocchio, tsíppiri = rosmarino), ma numerosi resti del sostrato paleosardo che si identificano più copiosi fra i vocaboli che indicano formazioni geomorfologiche o inerenti la toponomastica o la fitonimia: i campidanesi matta (pianta) e ǧára, che designa altipiani basaltici e granitici (la Giara di Gesturi) oppure il barbaricino e il campidanese bák(k)u, ák(k)u che indica propriamente una valle, una sella fra due montagne (Bacu Abis, vicino a Carbonia), o ancora Mogoro, Gonnos, Nurri, giusto per fare alcuni esempi. Va rilevato inoltre come nelle zone più interne la toponomastica di origine pre-romana raggiunga addirittura il cinquanta per cento del totale».

Secondo il professor Giuseppe Marci, quello del sardo e del suo impiego nella scrittura è «un problema complesso perché quell’antica lingua, in apparenza poco presente nella tradizione scritta, è però sostenuta dal fecondo rapporto tra oralità e scrittura e dall’abitudine al confronto con le lingue delle culture dominanti. Si spiega così il fenomeno rappresentato dagli scrittori che, nel Novecento, hanno voluto impiegare, in prosa e in poesia, le diverse varietà del sardo e forme linguistiche ancor più meticce nella composizione delle loro opere».

«Un tentativo, per altro naufragato, di superamento di questa difficoltà fu l’istituzione, da parte della Regione Sardegna, nel 2001 della famigerata Limba Sarda Unificada» ci informa professor Virdis. «Una varietà scritta, realizzata da una commissione di esperti, che non rifacendosi ad alcuna variante specifica, fu percepita però come troppo artificiale. Per questa ragione a partire dal 2006 la stessa Regione adotta un’altra lezione, quella della Limba Sarda Comune, che invece accoglie la varietà di sardo che si parla in quella sorta di aria grigia tra il Campidanese e il Logudorese, rappresentata dall’alto Oristanese, come riferimento più preciso potremmo indicare Fordongianus e la zona al di là del Tirso».

Dunque una lingua scritta, utilizzabile per gli atti ufficiali con precise norme ortografiche?

«Sì, ma con concessioni alle altre varianti soprattutto in merito al lessico, che è sicuramente la parte più variegata. Il grande pregio della Limba Comune, pur con tutti i limiti del caso, è di certo la sua non artificiosità, la sua aderenza a una precisa area geografica» chiarisce Virdis. «Una lingua sovralocale sarebbe assolutamente auspicabile, ma nella direzione di una chiara normativa ortografica, che non sopprima la ricchezza lessicale delle varianti locali, soprattutto dei geosinonimi».

Approfittiamo della disponibilità del nostro interlocutore: non possiamo esimerci dal chiedergli di sciogliere un ultimo nodo: Santu Sparau o Santu Sperau?

«Il centro è, a memoria d’uomo, noto nella seconda variante, così come il nome del patrono, e sparadesusu sono chiamati gli abitanti. Tale passaggio dalla e lunga latina alla a, si inquadra perfettamente nella tendenza all’apertura delle vocali tipica del Campidanese».

Questa caratteristica può in qualche modo essere legata agli stretti rapporti con l’Africa settentrionale?

«Questo non è un settore rispetto al quale sono sufficientemente competente, l’unica cosa che mi sento di affermare è che sicuramente il latino africano si prestava a una notevole tendenza plastica, anche nel campo del vocalismo, più soggetto perciò a mutazioni nel contesto fonetico».

Un popolo, un’isola, un’identità definita e forse, un giorno, una sola limba.

Grazie professor Virdis.