Sa domu de su Marchesu

verone coperto

 

San Sperate

Sa domu de su Marchesu

 

 

  1. Geomorfologia

 

San Sperate è un centro abitato situato a circa km 18 da Cagliari, nella fertile pianura del Campidano. Il terreno si presenta quasi uniformante piano, solcato dai due corsi d’acqua del Rio Mannu e del Rio Flumineddu (che scorrono da Nord – Est a Sud – Ovest) e ricco di sorgenti e di falde acquifere superficiali, is arrius e i mitzas: Sa Mitza de Piscinortu, S’Arriu de Piscinortu, Sa Cor’e Arrabis, S’Arriu de Ponti Becciu.

L’assenza di rocce affioranti e la conseguente scarsità di composti litici di dimensioni significative per l’utilizzo in edilizia, determinò nel corso del tempo, non solo il frequente riuso di materiale proveniente da strutture abbandonate, quanto, soprattutto, lo sviluppo di tecniche costruttive alternative che sfruttassero l’abbondante presenza di argilla e terra grassa. E così su ladiris, i mattoni crudi essiccati al sole, divennero nel Campidano tutto e nell’agro di San Sperate in particolare, “la materia prima dell’edilizia dall’età nuragica ai tempi nostri”(Ugas 1993).

 

  1. Cenni sulla storia di San Sperate

 

La natura pianeggiante del suolo e la notevole disponibilità d’acqua, favorì la presenza di stanziamenti stabili nel suo territorio fin dall’epoca preistorica e protostorica, come testimoniato dagli abbondanti rinvenimenti di resti di vasellame e macine attribuibili al Bronzo medio iniziale (XVI – XV secolo a. C.) Una notevole continuità insediativa segnò questa località, che risulta popolata a partire dal Bronzo medio (XIV sec. a. C.) sia nel Bronzo Recente che nella prima età del ferro (XIII – VI sec. a. C.), con lo sviluppo di due distinti nuclei abitativi nuragici, quello di San Sebastiano e quello di San Giovanni.

Con l’arrivo dei Cartaginesi nell’isola tra la fine del VI e l’inizio del V secolo anche il sito dell’attuale San Sperate passò sotto i nuovi dominatori che realizzarono nel suo territorio nove abitati indipendenti, tra i quali il ruolo preminente spettò a quello sorto in corrispondenza dell’antico villaggio nuragico di San Sebastiano, da cui dipendevano quattro aree sepolcrali autonome dislocate nella periferia, le cui vaste dimensioni testimoniano la rilevanza di questo villaggio in epoca punica. L’importanza che il paese raggiunse sotto la dominazione cartaginese sembra proseguire anche in età romana, quantunque allo stato attuale degli studi non si conosca l’esatto stato giuridico del centro. Ciò che appare assodato dall’indagine archeologica è il permanere in epoca romana dello stesso perimetro dell’insediamento dell’età precedenti, in una favorevolissima posizione interfluviale che garantiva un sicuro approvvigionamento idrico per la popolazione residente. Ad attestare l’importanza dell’abitato in epoca romana restano i risultati degli scavi archeologici e i frequenti ritrovamenti casuali di materiale epigrafico, numismatico oltreché funerario ed edilizio di notevole interesse storico ed archeologico.

Non esiste purtroppo nessuna testimonianza sulla diffusione del cristianesimo a Sperate e pochissime sono anche le informazioni sulla fase vandalica e bizantina del centro: l’assenza di ricerche archeologiche mirate permette purtroppo solo di ipotizzare un quadro d’insieme non lontano da quello del resto dell’isola. E’ probabile, comunque, che in epoca tardo antica rivestisse ancora un ruolo importante nel panorama sardo, tanto da poter essere scelto, con verosimiglianza, come luogo di ricovero per le reliquie del martire di origine africana, Speratus, cui il centro deve il nome (Pilloni 2009).

Pochissime le notizie sulle vicende del paese anche in età altomedievale. All’epoca della divisione in giudicati della Sardegna, fece parte di quello di Cagliari (dal 1020/1040 al 1258 circa), annesso ad una delle sedici curatorie (quella di Decimomannu) in cui era stato suddiviso per ragioni amministrative il giudicato stesso. Fu poi sotto il controllo pisano (possedimento del conte Gherardo dei Donoratico) e dal 1356 passò agli aragonesi.

Con il 1374 si apre una nuova fase per il paese, che lo vedrà divenire feudo e passare sotto diversi baroni e marchesi: da Giordano Tolo ai fratelli Torella; da Gerardo Botter a Gaspare Porcella; da Battista Fortesa al giudice Cadello, divenuto marchese; da Carlo Enrico Sanjust, barone di Teulada e marchese di San Sperate, al marchese Efisio Cadello Asquer, che lo vendette, decretandone l’annessione, nel 1839, al regno dei Savoia (Cherchi 1987).

 

 

 

La storia della proprietà

 

Il 15 marzo 1752 il marchese Don Giuseppe Cadello Cugia acquistò un possedimento in località Biscinau de Cresia, dai coniugi Giuseppe Lepori Anna Maria Schirru, come risulta dal rogito del notaio Antioco Scanu. Vennero quindi realizzate la casa padronale – ancora esistente – e il carcere. Due anni prima dell’acquisto del terreno, infatti, Don Giuseppe – già giudice della Reale Udienza e della Sala Criminale – era divenuto il nuovo proprietario del feudo di Sant Esperat, che passò dalle casse del Regio Patrimonio Sabaudo ai possedimenti del marchese per una cifra di 17500 scudi sardi, pari a 43750 lire sabaude. Il notaio che un anno dopo, nel 1759, ne ratificò la vendita fu Giacinto Paderi, che ne sancì il passaggio al marchese Cadello cum mero e misto imperio, ossia con giurisdizione civile e criminale. Da qui la necessità di dotare la sua dimora di un edificio adibibile a prigione, mancante all’epoca del passaggio di proprietà nel feudo speratino (Sarais 97).

Ubicata lungo l’attuale via XI febbraio, l’antica villa dei Marchesi Cadello, obliterava l’intero quartiere dirimpettaio della chiesa parrocchiale. Una vasta tenuta, di quasi 30000 metri quadri, tra residenza dei baroni, competenze rustiche e giardini coltivati a frutteto, di cui, attualmente, si può percepire a fatica l’estensione originaria, a causa dei numerosi frazionamenti tra gli eredi succeduti al pignoramento e alla vendita all’incanto della proprietà, in seguito ai debiti contratti dalla famiglia nobiliare. Nonostante un interessamento da parte dell’amministrazione comunale che ottenne, nel 1947, il nulla osta dell’Ufficio Sanitario Provinciale per la realizzazione del nuovo edificio scolastico, la proprietà rimase in possesso in possesso di privati. Con rogito notarile del primo settembre 1941, infatti, i fratelli Angelo e Giovanni Pilloni ed il Sig. Salvatore Usai, acquistarono dal Credito Fondiario Sardo “la casa in via di Chiesa, già Castello Baronale” in stato di abbandono e fatiscente, per farne le loro abitazioni familiari. Un successivo frazionamento della proprietà fra gli eredi riguardò soprattutto il lotto ospitante sa domu de su marchesu che venne ulteriormente parcellizzato ed oggi risulta in possesso delle famiglie Guiso Maurizio, Usai Laurina, eredi defunto Pilloni Renzo, Pilloni Gilberto, Lussu Elsa.

 

Il castello baronale

 

L’abitazione fu realizzata al centro del possedimento, con pianta a sviluppo longitudinale secondo l’asse nord-est / sudovest. L’intero fabbricato occupava un’area di circa 150 metri quadri e si disponeva su due piani comunicanti grazie ad una scala esterna (pavimentata con lastre di ardesia e coperta con tetto spiovente a incannucciato) a due rampe affrontate, raccordate attraverso la terrazza centrale, sulla cui sommità si erge una decorazione architettonica con guglie, assai singolare. I merli a dentelli, con decoro a traforo e stilizzazioni delle antefisse a pigna, sembrano richiamarsi agli alfabeguer valenzani di XV secolo e la merlatura nel suo insieme pare subire influenze islamico – spagnole. Benché l’epoca di costruzione dell’edificio impedisca di ipotizzare ascendenti diretti, appare verosimile un attardamento rispetto ai dettami architettonici dell’epoca a favore, presumibilmente, di una ripresa di motivi decorativi già presenti nella facciata a terminale piatto merlato della limitrofa parrocchia seicentesca.

La privatezza della residenza era garantita da un alto muro di recinzione in pietra cantone che ne obliterava interamente la vista all’esterno. Il collegamento con l’interno era garantito da un portale ligneo che immetteva ad un atrio fornito di cassoni in tufo (disposti a guisa di sedili intorno alle pareti laterali), a sua volta delimitato da un portone di più modeste dimensioni, comunicante col vasto giardino interno. Alla funzione meramente diaframmatica il vestibolo aperto ne associava, in realtà, un’altra altamente paradigmatica della società dell’epoca. Durante la settimana santa, infatti, quando per tradizione i poveri del villaggio si recavano dal marchese per chiedere elemosine di cibo o biancheria, era questo il luogo deputato all’attesa ed alla distribuzione delle limusiasa. Nella seconda metà dell’Ottocento con la definitiva soppressione di tutte le prerogative feudali della nobiltà anche questa rito pietoso scomparve, decretando la demolizione dell’ormai superflua anticamera stessa, sostituita con un unico portale ligneo riccamente scolpito che si apriva lungo all’attuale via XI Febbraio, l’antica via Parrocchiale. Nell’ampio cortile che occupava gran parte della porzione meridionale del possedimento, erano coltivate piante ornamentali, rose ed una palma dall’alto fusto, ancor oggi esistente nella proprietà di Gilberto Pilloni.

Al pian terreno trovava posto la cucina con un ampio camino di quasi tre metri di lunghezza che ospitava i fornelli, il focolare, il forno a legna e la grande sala da pranzo. Comunicante con il salone era un piccolo ambiente dotato di scala in legno che immetteva nei granai. Sa prasonedda, l’ambiente indicato da tutti i testimoni come sede del carcere locale per via del ritrovamento di una mazza ferrata, era invece situata al piano terra, come le altre pertinenze rustiche, stalle e ricoveri dei mezzi agricoli.

La parte più rappresentativa della villa era però riservata al primo piano, non solo per la presenza delle camere da letto padronali, ma anche per il grande soggiorno centrale abbellito dal caminetto in calcare dipinto ad imitazione dei marmi intarsiati, secondo la moda in voga nel XVIII secolo.

Le strutture portanti furono realizzate in pietra cantone, i tetti in legno di ginepro con rivestimento in tegole.

Con l’acquisto da parte dei fratelli Pilloni e del sig, Usai, la struttura generale dell’abitazione non fu grandemente modificata, benché frazionata pesantemente. Fra le più significative aggiunte, va segnalato il portico coperto abbellito da colonne a base circolare, con fusto liscio e capitello ionico su cui si impostano gli archi, alternativamente a sesto acuto e ribassato. Seguendo i dettami del gusto dell’epoca (fine anni 40), le colonne furono inizialmente dipinte ad imitazione del marmo rosso, mentre in occasione di successivi restauri si optò per una più semplice colorazione monocroma.

 

La Casa raccontata

Nell’immaginario popolare la dimora dei marchesi non smise mai di essere il luogo nobile per eccellenza del paese anche quando venne ceduta a privati, mantenendo significativamente l’appellativo di Domu de su Marchesu o Castello Baronale, come veniva citato nelle carte ufficiali del catasto. E nonostante non sia sopravvissuto nessuno dei testimoni oculari della vita che vi si conduceva, in alcuni anziani, il ricordo dei racconti dei loro avi è ancora vivissimo: le feste, i lutti, il lavoro, i preparativi per la visita del re, come nella più squisita tradizione del feuilleton ottocentesco. Carmela Pilloni, che in quella casa ha abitato fin dagli anni quaranta, rievoca con straordinaria lucidità gli aneddoti di cui fu spettatore privilegiato il nonno materno, maistu ‘e muru proprio nella residenza dei marchesi: “Il giardino fiorito era teatro, ogni anno, della Festa di Primavera, organizzata dalla famiglia del barone per la popolazione del feudo che culminava con i balli collettivi, cui però la marchesa non prendeva mai parte.” La nobildonna, dunque, era solita osservare con distacco il “suo popolo”: la sua postazione, dall’alto del balcone centrale, che guardava a sud verso il cortile, le permetteva di presenziare senza rischi di promiscuità ai festeggiamenti del volgo e nel contempo di poter controllare tutto il suo possedimento. E che quel verone fosse fulcro non solo architettonico della villa ne è dimostrazione un altro episodio narrato dalla sig.na Pilloni: “In occasione della morte del Marchese di Leonelli tutta la casa fu listata a lutto per un anno intero, con drappi neri al balcone visibili da tutto il paese.”

Dimora di pietra in un paese di fango, ossimoro strutturale che acuiva divari sociali e culturali, paradigma di distanze incolmabili e limiti insuperabili: questo fu sa domu de su marchesu,. Eppure nobiltà in decadenza e povertà rurale erano destinate a trovare proprio in quella casa, un legame indissolubile. Le signorili stanze del castello divennero le semplici dimore di figli e nipoti dei sudditi del marchesato decaduto, alla cui modesta esistenza poco servivano, ormai, orpelli e cultura:“Tutti i libri e le riviste ritrovate nella casa furono bruciate; facemmo un grande fogadoi: allora non si capiva il valore di certe cose!”.

Ma, per fortuna dei posteri, al ricordo tramandato di generazione in generazione si attribuiva, ancora, un valore sociale senza pari.

 

 

Bibliografia

Cherchi Luigi, Il paese di San sperate e i suoi abitanti, edizioni Tea, Cagliari1987.

Pilloni Emanuela Katia, Il Culto di San Sperate: Africa o Sardegna? in  Theologica & Historica. Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, XVIII, 2009, pp. 387-424.

Sarais Francesco, Il feudo di San Sperate in periodo sabaudo, Tesi di laurea inedita, Relatore prof. Giovanni Murgia, anno accademico 1996-1997, Università degli Studi di Cagliari.

Ugas Giovanni, San Sperate dalle origini ai baroni, Cagliari 1993.