Il museo del crudo di San Sperate

 

 

 

 

Il Paese

San Sperate è un centro abitato situato a circa km 18 da Cagliari, nella fertile pianura del Campidano. Il terreno si presenta quasi uniformemente piano, solcato dai due corsi d’acqua del Rio Mannu e del Rio Flumineddu (che scorrono da Nord – Est a Sud – Ovest) e ricco di sorgenti e di falde acquifere superficiali, is arrius e i mitzas: Sa Mitza de Piscinortu, S’Arriu de Piscinortu, Sa Cor’e Arrabis, S’Arriu de Ponti Becciu.

L’assenza di rocce affioranti e la conseguente scarsità di composti litici di dimensioni significative per l’utilizzo in edilizia, determinò nel corso del tempo, non solo il frequente riuso di materiale proveniente da strutture abbandonate, quanto, soprattutto, lo sviluppo di tecniche costruttive alternative che sfruttassero l’abbondante presenza di argilla e terra grassa. E così su ladri, i mattoni crudi essiccati al sole, divennero nel Campidano tutto e nell’agro di San Sperate in particolare, “la materia prima dell’edilizia dall’età nuragica ai tempi nostri” (Ugas 1993, p. 28).

La natura pianeggiante del suolo e la notevole disponibilità d’acqua, favorì la presenza di stanziamenti stabili nel suo territorio fin dall’epoca preistorica e protostorica, come testimoniato dagli abbondanti rinvenimenti di resti di vasellame e macine attribuibili al Bronzo medio iniziale (XVI – XV secolo a. C.). Una notevole continuità insediativa segnò questa località, che risulta popolata a partire dal Bronzo medio fino alla prima età del ferro (XIII – VI sec. a. C.), con lo sviluppo di due distinti nuclei abitativi nuragici, quello di San Sebastiano e quello di San Giovanni.

Con l’arrivo dei Cartaginesi nell’isola tra la fine del VI e l’inizio del V secolo anche il sito dell’attuale San Sperate passò sotto i nuovi dominatori, che realizzarono nel suo territorio nove abitati indipendenti, tra i quali il ruolo preminente spettò a quello sorto in corrispondenza dell’antico villaggio nuragico di San Sebastiano. L’importanza che il paese raggiunse sotto la dominazione cartaginese sembra proseguire anche in età romana, quantunque allo stato attuale degli studi non si conosca l’esatto stato giuridico del centro. Ciò che appare assodato dall’indagine archeologica è il permanere in epoca romana dello stesso perimetro dell’insediamento delle età precedenti, in una favorevolissima posizione interfluviale che garantiva un sicuro approvvigionamento idrico per la popolazione residente.

Non esiste purtroppo alcuna testimonianza sulla diffusione del cristianesimo a Sperate e pochissime sono anche le informazioni sulla fase vandalica e bizantina del centro: l’assenza di ricerche archeologiche mirate permette purtroppo solo di ipotizzare un quadro d’insieme non lontano da quello del resto dell’isola. E’ probabile, comunque, che in epoca tardo antica rivestisse ancora un ruolo importante nel panorama sardo, tanto da poter essere scelto, verosimilmente, come luogo di ricovero per le reliquie del martire di origine africana, Speratus, cui il centro deve il nome (Pilloni 2009, p. 406).

Pochissime le notizie sulle vicende del paese anche in età altomedievale. All’epoca dell’avvento del sistema giudicale in Sardegna, il centro fu annesso ad una delle sedici curatorie (quella di Decimomannu) in cui era stato suddiviso per ragioni amministrative il giudicato di Cagliari (1020/1040 – 1258 circa). Fu poi sotto il controllo pisano (possedimento del conte Gherardo dei Donoratico) e dal 1356 passò agli aragonesi.

Con il 1374 si aprì una nuova fase per il paese, che divenne feudo passando sotto il controllo di diversi baroni e marchesi: da Giordano Tolo ai fratelli Torella; da Gerardo Botter a Gaspare Porcella; da Battista Fortesa al giudice Cadello, divenuto marchese; da Carlo Enrico Sanjust, barone di Teulada e marchese di San Sperate, al marchese Efisio Cadello Asquer, che lo vendette, decretandone il passaggio, nel 1839, al regno dei Savoia (Ugas 1993, p. 82).

 

L’edificio

Il Museo del Crudo, situato nella centrale via Roma, è stato realizzato su un lotto ad elle, in precedenza occupato da un’antica abitazione padronale del Seicento interamente costruita in ladri. L’edificio è costituito da due distinti corpi di fabbrica (per un totale di 13 ambienti) separati da una corte di forma quasi quadrangolare. Una seconda corte, di dimensioni inferiori, è presente sul retro.

Il corpo principale, realizzato su due piani e allineato lungo filo-strada, presenta aperture su i due ordini (quattro finestre al pian terreno e cinque portefinestre con balcone al primo piano). La copertura è realizzata a doppio spiovente con struttura portante a capriate lignee e manto in coppi sardi su incannicciato; i solai di calpestio e delle coperture sono realizzati in legno. La muratura è in terra cruda, con profilature in mattoni cotti, attorno alle bucature; lo spessore dei setti murari non supera i 60 cm. Il mattone crudo, usato per l’innalzamento delle murature portanti era originariamente del tipo realizzato a mano; l’argilla era rossastra, con notevole presenza di inserti di vario tipo: ghiaia, sabbia, legnetti e paglia.

L’unico diaframma tra il mondo esterno e l’intimità della dimora viene garantito da un largo portale ligneo sormontato da un arco semicircolare, che immette su un cortile quadrangolare pavimentato in ciottoli e dotato di un pozzo centrale, preceduto da una piccola loggia sorretta da pilastri. La corte (chiusa ad occidente da un alto muro e ad oriente da un locale di sgombero), è delimitata a nord dal corpo che prospetta alla strada principale, mentre, a sud, un fabbricato lo mette in comunicazione, attraverso un corridoio, con sa prazza de appabasa, di dimensioni inferiori (per questo chiamata anche sa prazziscedda) e forma rettangolare. La struttura che funge da raccordo tra i due cortili consta di due piani comunicanti mediante una scala monumentale centrale (a doppia rampa, dotata di copertura lignea a due spioventi e rivestimento in tegole sarde) che sormonta il portale d’ingresso, incastonato su un arco semicircolare.

Se da questa sommaria descrizione è evidente la ripresa di alcuni elementi costitutivi della tradizionale abitazione campidanese (le due corti interne, l’uso dei mattoni crudi, i due corpi di fabbrica e sa lolla), alcune innovazioni rispetto a questa “architettura senza architetti” ci portano piuttosto al cosiddetto palattu, che si rifaceva ai modelli dell’urbanistica cittadina ottocentesca. Chiari segni di questo ammodernamento (che pur non mutando sostanzialmente la struttura planimetrica della casa, la rende più vicina al gusto cittadino) sono certamente la presenza di un prospetto finestrato, i due piani abitativi e l’intonaco di rivestimento dei mattoni crudi (Sanna 1994, p. 27).

Dopo essere stata corpo centrale di un’antica dimora (che la memoria paesana fa risalire al Seicento, ma di cui non è stato possibile ritrovare alcun documento che lo attesti con certezza), in seguito all’acquisto da parte dell’amministrazione comunale dall’allora proprietario Giuseppe Piras, (con rogito notarile datato 16 aprile 1857), il lotto cambiò destinazione d’uso, assumendo l’importantissima funzione sociale di scuola e municipio. Da un rendiconto di spesa datato al 9 dicembre 1857 (Misura e Stima dei lavori occorrenti per la costruzione delle opere onde adattare una casa nel comune di San Sperate nell’uso di Ufficio Comunale) si evince che l’impianto strutturale dell’abitazione privata dovesse ricalcare grosso modo quello dell’attuale museo. Nel preventivo erano infatti previsti interventi di modesta entità:

-“demolizione e ricostruzione della copertura, compresa sostituzione dei legnami, nuovo incannicciato e tegole, in sostituzione alle usurate e rotte in tutto, con cemento di calce e sabbia” in diversi ambienti della casa;

-nuove murature divisorie “superiormente alla camera destinata per li carabinieri; nella camera all’Est del pian terreno per dividere quest’ ultima in due, cioè il vano di destra per scuderia e quello di sinistra per camera del cesso per consiglieri”;

– ampliamento della camera per le sedute del consiglio “in mattoni crudi del paese”;

-la realizzazione ex novo delle latrine e di un “focolare da costruirsi a nuovo nella camera per la cucina, compresa la demolizione di quello esistente nonché di due formelle in ghisa ed il fornello grande circolare col contorno in ferro”.

Fra le azioni di restauro erano inoltre annoverate il rifacimento dell’intonaco “con cemento in calce e sabbia”; la pavimentazione da realizzarsi “in quadretti sardi e con cemento in calce e sabbia” e numerose porte e finestre in “legname di pino”. La spesa totale prevista ammontava a £ 3300.

Da una planimetria datata al 20 dicembre 1940 e da alcune foto d’epoca che ritraggono scolaresche negli anni ’20, risulta che la parte dell’edificio prospiciente alla strada fu adibito ad aule scolastiche (due al pian terreno e due al piano primo), mentre il corpo più interno ospitò il municipio, con archivio, ripostiglio, magazzino e camera di sicurezza al pian terreno, un secondo archivio, e ufficio del sindaco, dell’applicato e del segretario nel piano superiore. La piccola struttura posta sul lato orientale fungeva, invece, da ambulatorio comunale.

 

Se della memoria dell’antica casa padronale, dei suoi abitanti e delle loro storie, non è purtroppo rimasta nessuna testimonianza, neppure nel ricordo sbiadito degli anziani, molti sono invece gli echi della vita dello stabile, divenuto scuola e municipio, ancora vivi nella memoria della comunità. Un illustre sansperatino, monsignor Luigi Cherchi, nel libro dedicato al suo paese natio, citando l’Angius, fa osservare che alla metà dell’Ottocento solo venti persone erano in grado di leggere e scrivere, preti compresi. “Ricordo che nel 1922\23 erano così pochi gli alunni che la quarta e la quinta classe erano unite insieme”, scrive ancora monsignor Cherchi, che menziona non più di quindici allievi. La maestra era la signorina Giuseppina Piras, un’insegnante di comprovata esperienza che seppe concludere un programma davvero notevole:

“avevo imparato tutti i verbi irregolari, la Storia Romana, l’analisi logica di capitoli interi del “Cuore” di Edmondo de Amicis, allora tanto in voga; e problemi con ragionamento a fianco, anche di 10-12 operazioni” (Cherchi 1987, p. 54).

Una scuola povera, come si evince tanto dai racconti dei maturi ex alunni, che dalle foto delle scolaresche (pochi i fortunati ad indossare un abito in buono stato o le scarpe), poco frequentata, ma competente, affidata a personale abile e preparato. E se, sempre dai racconti degli anziani, si distingue per dolcezza e bellezza, la “maestrina” Antonina Ennas, che nei primi anni del dopoguerra teneva in classe la sua bambina di pochi anni quando nessuno se ne poteva occupare (gli asili erano ancora una rarità), certamente per autorità e competenza a primeggiare era il maestro Ninni Ortu, che, redarguendo gli alunni senza spostarsi dalla cattedra (grazie alla sua lunghissima bacchetta, una canna di ben quattro metri!), con aria di sconforto di fronte all’ennesima testimonianza di scarsa preparazione dei suoi studenti, era solito esclamare: “Povera Italia, metà dell’Africa!”. E da allora l’espressione, entrata nel lessico proverbiale sansperatino, è divenuta epitome asciutta e lapidaria della presa di coscienza della decadenza sociale e culturale della società moderna, nonché monumentum di un’autorevolezza che non necessitava di arroganza per imporsi all’attenzione dei bambini.

Ma l’antica dimora, in quanto sede del municipio, fu testimone, seppure indiretta, di altri significativi momenti della vita della comunità, da quelli inerenti l’ordinaria amministrazione a quelli più tragici della cronaca nera. Pur essendo un paese tranquillo non mancarono, infatti, episodi di violenza, talvolta efferata, i cui responsabili trovarono temporaneo “alloggio” nelle camere di sicurezza (sa prasoi, nell’impropria definizione dei locali), in attesa dell’arrivo dei carabinieri da Villasor. E non fanno neppure difetto anche episodi di cronaca che pur nella loro tragicità, ammantano ancora i ricordi dei testimoni di una malcelata patina di nostalgia per un mondo ormai lontano, che portava con sé tutti gli aspetti positivi e negativi di quella semplice società contadina. E’ il caso, tra gli altri, del dramma familiare consumatosi in piena epoca fascista, di cui fu testimone l’allora podestà Efisio Lisci, chiamato a dirimere una lite tra padre e figlio che, reo di aver amputato a morsi l’orecchio del genitore, fu tradotto in prasoi dal primo cittadino (armato della sola fascia tricolore!), per meditare sulla gravità del suo atto criminoso. Dopo pochi giorni di riflessione coatta, il figliol prodigo tornò alla vita di sempre, evitando l’onere e il rischio di un processo per violenza personale: tale era il prestigio del sindaco e l’alone di mistero di cui era rivestita la camera di sicurezza del municipio, che il padre decise di non sporgere denuncia e di perdonare il ragazzo.

 

 

Recupero e Patrimonializzazione

Il trasferimento negli anni sessanta delle scuole elementari nello stabile di via Sassari e degli uffici comunali nel nuovo municipio di via Risorgimento, determinò uno stato di abbandono e di conseguente degrado dell’intera struttura. Per far fronte a tale situazione nel 1985 fu redatto un progetto di restauro e riqualificazione affidato all’architetto Roberto Badas e totalmente finanziato dall’Assessorato regionale alla Pubblica Istruzione, in adempienza alla legge regionale del 7.2.58, in merito ai contributi da destinare per i musei di enti locali. Promotore dell’iniziativa fu l’ex assessore alla Cultura Vincenzo Porcu, che, nella relazione di presentazione, sottolineava le ragioni profonde che avevano portato l’amministrazione comunale all’ideazione di un programma culturale incentrato sulla valorizzazione della civiltà del crudo, riportando, tra l’altro lo stralcio di una delibera consiliare del 1857, in cui emergeva il legame atavico della comunità sansperatina con questo povero materiale:

 

“Ritenuto che la comunità ha bisogno di terreno cretoso per la fabbricazione delle case, muri e pavimenti, di cui, comunemente in questo paese si fa uso, il Consiglio comunale, all’unanimità, delibera l’acquisto di 13.500 mq di terreno, in via Casteddu” (Porcu 1989, p. 59).

 

Nelle intenzioni degli amministratori, non si sarebbero dovuto trattare, però, di un museo in senso classico, ma di una struttura complessa, che avrebbe rappresentato un unicum nel panorama isolano: una sede operativa per la documentazione e la ricerca (con funzioni di laboratorio permanente), nonché di conservazione, studio e tutela di tutte le testimonianze legate e connesse alla tecnologia della terra cruda, presieduta da un comitato scientifico autonomo, che provvedesse a predisporre programmi annuali di indagine.

La mancanza di coesione tra le diverse parti in causa, il susseguirsi di amministrazioni comunali di diverso segno politico, le diatribe all’interno delle associazioni culturali più influenti, nonché difficoltà nel reperimento di tutti i fondi necessari, impedirono di fatto il realizzarsi dell’ambizioso disegno. E così attualmente solo il corpo più interno dell’edifico ospita una piccola mostra permanente inerente l’architettura del crudo; il resto del museo, privo di qualsiasi arredo, è utilizzato solo per mostre estemporanee, convegni e iniziative di carattere culturale. Un grande incompiuto, dunque, a cui la popolazione guarda con malcelato rammarico alla luce delle notevoli potenzialità inespresse: un intero paese che si interroga e che non vuole dimenticare la sua storia, che per più di un secolo è passata anche attraverso le stanze e is pratzasa, un tempo chiassose e indaffarate, dell’attuale Museo del Crudo.

 

 

Bibliografia

Cherchi Luigi, Il paese di San sperate e i suoi abitanti, edizioni Tea, Cagliari1987.

Pilloni Emanuela Katia, Il Culto di San Sperate: Africa o Sardegna?in  Theologica & Historica. Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, XVIII, 2009, pp. 387-424.

Porcu Vincenzo, in Il cotto, il crudo e la pietra, Atti del convegno (San Sperate 1986), Cagliari 1989, pp. 59 – 69.

Sanna Antonello, Costruire ed abitare, in R. Copez (a cura di), Architettura senza architetti. La casa e il suo maestro, Scuola Sarda, Cagliari 1994.

Ugas Giovanni, San Sperate dalle origini ai baroni, Cagliari 1993.