Le Domus de Janas: dimore dei defunti e case delle fate


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Anfratti della memoria rivestiti di mito. Libri di storia con didascalie colorate per chi della scrittura non ha bisogno: i morti parlano. O, per lo meno, lo fanno attraverso le loro dimore eterne. Dall’oltretomba raccontano quale fosse la vita del mondo dei vivi e invitano i posteri a non dimenticare. Memorie di morte, dunque, o aspirazioni di vita eterna? Luoghi di riposo o città ultraterrene di comunione con i viventi?
Le origini. Un parterre di valenze religiose e sociali, e una rilevanza archeologica senza pari si cela nelle sepolture prenuragiche che affollano i recessi rocciosi dell’isola. Da Porto Torres a Macomer, da Busachi a Pimentel, sono circa un migliaio le Domus de Janas – espressione della cultura di Bonu Ighinu (Neolitico medio 4000-3400 a.C.) prima, e di quella di Ozieri poi – ritrovate in tutta la Sardegna. Nelle tipologie più antiche, come quella della necropoli di Anghelu Ruiu, l’accesso era dato da un pozzetto verticale con una divisione in piccoli ambienti, dotati di vaschette per le offerte e nicchie e cassoni ricavati dalla pietra, fungenti verosimilmente da letto funebre, e ospitanti i corredi personali (armi, suppellettili e barche per il viaggio eterno). I muri venivano realizzati per risulta, mantenendo un diaframma di roccia tra una stanza e l’altra.
L’evoluzione. Scavate su costoni di roccia, adiacenti l’una all’altra, le celle funerarie formarono nel tempo delle vere e proprie città dei morti, a cui si accedeva mediante un lungo dromos che immetteva in un’anticamera, a sua volta collegata alla cella centrale sulla quale si disponevano gli ingressi dei singoli vani. Le domus più complesse sembrano rispondere a un disegno costruttivo unitario, che riporta sul piano il simbolismo religioso, mediante il ricorso a una planimetria a forma di T o a forma di croce.
Inumazione. «(…) I cadaveri erano sepolti, non di rado, sotto bianchi cumuli di valve di molluschi. Ma tutti portano con sé strumenti e monili della loro vita terrena: punte di frecce di ossidiana, coltelli e asce di pietra, ma anche collane, braccialetti e anelli di filo di rame ritorto, e tante ceramiche». Così Lilliu, il Sardus Pater dell’archeologia isolana. Secondo altri studiosi, invece, il cadavere sarebbe stato deposto all’interno dell’ipogeo, ridotto ormai a scheletro, in seguito all’esposizione all’aperto per permetterne la scarnificazione. La ripetuta rimozione dei corredi e delle spoglie mortali per far posto a nuove giaciture, impedisce, ad oggi, di affermare con certezza se le Domus de janas fossero destinate a un unico gruppo familiare o alla collettività del villaggio.
Culti e simbolismo. La scelta di sepolture ipogeiche o scavate nella roccia – figura di un ancestrale contatto con il ventre della terra – sottende a una religiosità di tipo ctonio frequente in culture di matrice agricola. Alla terra generatrice di vita si affida il riposo eterno dei suoi adoratori. Ma le Domus de janas sono molto più di questo. Riproduzioni in scala ridotta delle abitazioni, capanne circolari o rettangolari con ogni dettaglio (dalle porte alle finestrelle, dagli armadietti a muro ai pilastri che raggiungono le travi del soffitto; dalle copertura in frasche o in legno fino al focolare al centro del pavimento o ai tavoli e agli sgabelli), sono luoghi di vita condivisa, in cui dimora chi non c’è più. Ed ecco che le magnifiche raffigurazioni pittoriche (dischi e riquadri, triangoli e spirali, semicerchi o bande oblique) arricchiscono un simbolismo architettonico già fitto, soprattutto quando compare lo schema taurino con la testa (la falsa porta centrale) e le corna dell’animale (le bande con vertici ricurvi verso l’alto), come nel caso della necropoli di Mandra Antine, a Thiesi. E se i cerchi sembrano ricondurre ai dischi solari, di norma collegati con i culti dell’acqua o della fecondità, le corna taurine si riferiscono piuttosto al dio Toro, di cui le genti prenuragiche erano adoratrici al pari della dea Madre mediterranea, di cui sono stati ritrovati numerosi ex voto nelle tombe.
Continuum. Anche le prime comunità nuragiche del bronzo antico, benché limitatamente ai territori del Sassarese e del Goceano, continuarono a utilizzare questa tecnica sepolcrale, recuperando ipogei più antichi o realizzandoli ex novo. Nella maggior parte dei casi la cella è ancora di forma circolare con soffitto concavo, rettangolare o ellittico-ovale, mentre in quelle a pianta rettangolare è talora presente un fossato perimetrale con funzione di camminamento per evitare di calpestare i defunti. Una differenziazione degna di nota riguarda la facciata, caratterizzata da una stele ricurva sopra l’uscio d’ingresso e, in taluni casi, nella parte superiore nel punto di origine della copertura, si possono distinguere tre piccoli incavi ferenti betilini di pietra, a guisa di coronamento.
E’ l’alba della civiltà megalitica. Le Domus de janas modificate sono prodromo di una nuova stagione sepolcrale: le tombe dei Giganti ne saranno le eredi più celebri. E non solo nell’archeologia. Anche il mito si sarebbe impossessato prepotentemente di loro, facendone rispettivamente case abitate da esseri magici dalla corporatura minuta (le Janas), o dimore eterne per creature giganti.
Dolores Turchi ne è convinta: «Fu proprio questa caratteristica (piccole grotticelle che riproducevano in scala le abitazioni, ndr) ad animare la fantasia popolare che generò la figura delle janas, donne bellissime e dotate di magici poteri, considerate come sacerdotesse oracolari». Dalle Bithiae alle Janas, dalla storia alla leggenda: il passo è davvero breve.