La Sardegna di Grazia Deledda

 

 

download «Ho vissuto coi venti, coi boschi, con le montagne. Ho mille volte appoggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie; ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente;…ho ascoltato i canti e le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo, e così si è formata la mia arte, come una canzone o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo».

Non si comprende la Sardegna se non si è sardi. Se ne ama il mare e la natura selvaggia, la semplicità e la proverbiale accoglienza della sua gente, il mangiare semplice e il vino schietto. Ma non la si conosce. Lo sapeva bene Grazia Deledda. Quando Emilio Cecchi nel 1941 scrive: «Ciò che la Deledda poté trarre dalla vita della provincia sarda, non s’improntò in lei di naturalismo e di verismo… Sia i motivi e gli intrecci, sia il materiale linguistico, in lei presero subito di lirico e di fiabesco». O quando l’enciclopedia Treccani liquida la sua narrativa come mossa «dal verismo a fondo regionale e folcloristico» ricca di «cronache e leggende paesane, storie di passioni elementari e di esseri primitivi», non si sminuisce l’attività della letterata, si fa ammissione non volontaria di inconoscibilità.

Tolstoj. Pubblicato a puntate dal dicembre 1893 al maggio 1895, frutto della collaborazione con De Gubernatis, il saggio Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna è introdotto da un rimando a Tolstoj, a dimostrazione dell’ampiezza di vedute della fanciulla di Nuoro. Ma non solo. Epitome di una concezione della valenza senza tempo della cultura popolare, la scelta della citazione è rimando a una società in pieno progresso che riscopre nella tradizione la propria identità: «Le espressioni popolari usate sole non hanno alcun valore, ma collocate a proposito colpiscono per la loro profonda saggezza». E ciò valeva a qualunque latitudine, per le immense steppe della Russia o per gli sperduti villaggi del Nuorese.

Nuoro. Alla Deledda meno conosciuta e meno osannata si devono alcune pagine di struggente bellezza sulla terra sarda. Molto prima del sommo riconoscimento, quando con la sfrontatezza dell’entusiasmo dei vent’anni, esordisce definendo Nuoro l’Atene sarda, fa dichiarazione di ammirazione assoluta e di totale adesione al suo mondo. Il Nuorese è il suo universo. Nel bene e nel male. Il futuro premio Nobel mostra già il germe della grandezza della sua arte, che dal particolarismo regionale sa cogliere l’universalità delle tradizioni locali: «Noi non vogliamo qui tesserne il panegirico…Ha i difetti e le virtù e le passioni dell’uomo primitivo e le superstizioni che del resto sono patrimonio generale di tutti i popoli». Ma è il popolo sardo quello di cui si fa portavoce, a costo di scoprire veli millenari e rivelare segreti indicibili: frastimos e irrocos, verbos e preghiere. La fede semplice del cristiano incolto arricchita da una varietà di conoscenze arcaiche mutuate dal paganesimo, rivisitate con l’occhio attento della studiosa che ne garantirà l’immortalità grazie a una lingua straniera, che la giovane non sentì mai del tutto sua.

Il sardo. Paradossalmente la paladina della cultura sarda ottenne i suoi riconoscimenti maggiori con una lingua che non sentiva sua. Ma non fu semplice omologazione alla lingua di Stato. Per sua stessa ammissione ella non riteneva di poter mai padroneggiare a pieno quell’idioma così diverso dalla sua lingua. «La Deledda, agli inizi della sua carriera, aveva la coscienza di trovarsi a un bivio: o impiegare la lingua italiana come se questa lingua fosse stata sempre la sua, rinunciando alla propria identità, o tentare di stabilire un ponte tra la propria lingua sarda e quella italiana, come in una traduzione». Così il filologo Tanda che sottolinea come «a presa di coscienza, anche linguistica, della importanza e dell’intraducibilità di quei valori, le consente di recuperare termini e procedimenti formali del fraseggio e della colloquialità sarda che non sempre trovano in italiano l’equivalente e che perciò talora vengono introdotti e tradotti in nota». Grazia non scriveva in italiano, traduceva dal sardo. E non perché padroneggiasse poco il vernacolo toscano. Scrisse di Sardegna ai non sardi con la precisa volontà di non mortificare una cultura che nella atipicità linguistica aveva gelosamente celato una millenaria cultura.

Il Verismo. «Ma da un’adesione profonda ai canoni del Verismo troppe cose la distolgono, a cominciare dalla natura intimamente lirica e autobiografica dell’ispirazione, per cui le rappresentazioni ambientali diventano trasfigurazioni di un’assorta memoria e le vicende e i personaggi proiezioni di una vita sognata». Per il Sapegno, dunque, non propriamente verista poteva definirsi l’ars deleddiana. Mancava all’autrice sarda il «distacco iniziale che è nel Verga» che, però, era uomo e siciliano. Dettagli non di poco conto se fra le motivazioni dell’assegnazione del Nobel vi fu proprio «la sua ispirazione idealistica… della vita della sua isola nativa» nonché «la profonda comprensione degli umani problemi». L’isola natia, patria e matrigna, le aveva insegnato a conoscere empaticamente – e necessariamente – la natura degli uomini attraverso i gesti e le parole. Ma soprattutto le riempì gli occhi di stupore. Quello stordimento – che non è acritico compiacimento per la terra natia ma neppure distaccata osservazione del mondo – la accompagnò sempre e ne rese unica e inclassificabile la sua produzione. «Essa sente il fascino della sua isola e della sua gente, più che essere attratta dai problemi della psiche umana». Lawrence non poteva capire come quella dicotomia sogno-realtà trovasse perfetta sintesi proprio nella totale immersione della scrittrice nella psiche umana. Lawrence non era sardo. Ma lo era Grazia. Oggi più d’allora.