La Pasqua dell’agnello

 

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Sceglietevi e prendetevi degli agnelli per le vostre famiglie, e immolate la Pasqua. E prendete un mazzetto d’issopo, intingetelo nel sangue che sarà nel bacino, e spruzzate di quel sangue che sarà nel bacino, l’architrave e i due stipiti delle porte.. Poiché l’Eterno passerà per colpire gli Egiziani… E quando sarete entrati nel paese che l’Eterno vi darà, conforme ha promesso, osservate questo rito”

Bona Paschiscedda. Il sardo ha un potere di sintesi sconosciuto all’italiano. Il Natale è una Pasqua minore: passaggio dall’oscurità alla luce, in cui il Sol Invictus oltrepassa la porta delle tenebre e apre la strada alla Salvezza in fieri. La vera Pasqua è quella di Resurrezione, Sa Pasca Manna, adito dalla morte alla vita, compendio della Fede cristiana che immola l’agnello sacrificale fattosi uomo, per la redenzione del mondo, ma lo risuscita il terzo giorno. Il Cristo risorto – in quanto figura del rituale di salvezza – è materializzazione del mantenimento di un patto stretto fra Dio e l’Uomo, il climax della apoteosi dell’amore divino per l’uomo.

Pesach La Pasqua ebraica commemora, invece, un altro passaggio: dalla schiavitù egiziana alla terra promessa sotto la guida di Mosè, rappresentato simbolicamente dall’l ‘immolazione dell’agnello e dal pane azzimo. L’etimo di pesach riporta infatti alla narrazione biblica della decima piaga, nella quale il Signore vide il sangue dell’agnello sulle porte delle case di Israele e “passò oltre”, colpendo solo i primogeniti maschi degli egiziani, compreso il figlio del faraone. Un “passare oltre”, un “tralasciare”, che stigmatizza la liberazione di Israele dalla prigionia e il viaggio verso la meta finale, la terra promessa. L’osservanza del rito pasquale, prescritta direttamente da Dio, prevede il consumo del pane azzimo e l’astensione dal pane lievitato, proprio a ricordo della fretta che caratterizzò la fuga dall’Egitto. Un simbolo così pregno di significato da ribattezzare la Pasqua ebraica come “festa degli azzimi”.

Ma il sacrificio più gradito al Dio dell’antico testamento rimane quello dell’agnello: nell’Esodo viene indicato come prescrizione quotidiana per il culto sull’altare al mattino e al tramonto. Autentici olocausti viventi, gli agnelli servivano alla purificazione dell’intero popolo o all’ espiazione di un singolo fedele. Con l’offerta di un agnello il credente dona a Dio ciò che ha di più prezioso e di più puro: simbolicamente, offre a Dio se stesso.

Agnus Dei Con l’avvento del cristianesimo, il sacrificio pasquale dell’agnello assunse un nuovo significato. È Cristo stesso che come agnello docile – ma non ignaro – si lascia condurre al macello e diventa l’Agnus Dei, l’agnello divino che immola se stesso. È la quadratura del cerchio. Il Dio di Abramo che risparmiò Isacco, e si accontentò di un montone, ora richiamò il suo Unigenito allo stesso terribile destino. Il sangue purificatore del Salvatore riempì il tempio mistico e generò un nuovo eterno patto fra Dio e l’Uomo.

La festa degli agnelli Anche l’islam ha la sua pasqua rituale, la cosiddetta ʿīd al-aḍḥā (festa del sacrificio) nota anche come ʿīd al-naḥr (festa dello sgozzamento) o ʿīd al-qurbān (festa dell’offerta a Dio). Celebrata ogni anno nel mese lunare di Dhū l Ḥijja presenta una singolare corrispondenza etimologica con il sardo: è infatti comunemente definita Festa Grande (ʿīd al-kabīr), in contrapposizione a Festa Piccola la ʿīd al-ṣaghīr, solennità della rottura del digiuno.

Il Dhū l-Ḥijja è il mese del pellegrinaggio, destinato fin dall’età preislamica all’espletamento dei riti di viaggio che interessava tutte le popolazioni della Penisola Arabica che si recavano poco a sud de La Mecca in omaggio ad un pantheon pagano. Era tempo sacro e inviolabile, tanto che da essere interdette tutte le occasioni di lutto, vietate le guerre nonché qualsiasi tipo di ascesi e di digiuno.

Origine L’etimo aḍḥā riconduce alla radice araba Ḍ-Ḥ-Y, (sacrificare), e la lega alle prove superate dal profeta Ibrāhīm e dalla sua famiglia. È dunque Islam, ossia Fede e totale sottomissione a Dio, rappresentato dal sacrificio sostitutivo del montone da parte Abramo, premiato per il suo totale assoggettamento all’Onnipotente.

Nel giorno della ʿīd al-aḍḥā, dunque, i musulmani sacrificano un animale (ovino, caprino, bovino o camelide) fisicamente integro e adulto, ucciso sempre mediante sgozzamento, affinché il sangue impuro defluisca e non contamini le carni, secondo il precetto biblico e coranico.

Greci e Romani L’antichità classica riservava un ruolo significativo alla consumazione della carne d’agnello. Il Pelide Achille, come tutti gli achei nell’Iliade, ne faceva ampio uso ed è spesso descritto mentre arrostisce allo spiedo sulle braci agnelli o capretti, dopo averli inteneriti con la fiamma in bacili bronzei.

Ma è nell’ Odissea che si eleva il cibo a importante funzione sociale, ben oltre il semplice bisogno di nutrimento. Non è un caso, dunque, che la formula che ricorre più spesso nel poema di Ulisse sia “dopo che si furono tolta la voglia di mangiare e bere”, in virtù della regola non scritta che indicava come primo – e sacro –dovere del padrone di casa nutrire i viatores.

Cedeano al peso de’ formaggi, e piene/D’agnelli e di capretti eran le stalle”. Così nel celebre canto di Polifemo si rammenta il ruolo centrale dell’allevamento ovi-caprino ed in particolare della produzione dei formaggi nell’antico mondo mediterraneo,

La carne ovina era presente, infatti, anche nella cucina etrusca e rappresentava una prelibatezza in quella romana

Munichione Una celebre ricetta riportata da Timachida di Rodi, nel I sec. a. C., ricorda un pasto rituale in onore di Artemide Μουνιχία (dal nome del santuario eretto sul colle che prospicente il porto di Atene), in cui la carne d’agnello era accompagnata dagli asparagi, l’aglio e il formaggio di pecora. Il banchetto, diffuso in tutta l’area magno greca, era consumato in occasione delle feste denominate Munichione, celebrate il sedicesimo giorno del mese di Aprile ed ebbe una straordinaria fortuna anche nei secoli successivi tanto da essere giunto fino a noi. Nella zona di Potenza, infatti, è ancora usanza preparare lo stesso piatto – con ingredienti e modalità inalterati – in occasione della gita fuoriporta di Pasquetta.

 

Perché la relazione tra morte e festa, cibo e sacrificio, non è mai venuta del tutto meno e sopravvive ancora nelle imbandite tavole pasquali, moderni altari sacrificali che perpetuano riti ancestrali di comunione con il divino .