Brebus e Nuus nella stregoneria speratina

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Relitto di una preistorica civiltà matriarcale che neppure i secoli della (maschilista) dominazione romana hanno saputo ribaltare del tutto, la Sardegna non prescinde mai dal rito. Anzi. È essa stessa un ritus, un ordine prescritto dei rapporti fra gli dei e gli uomini e degli uomini fra di loro, di cui la donna è sempre stata, a un tempo, l’officiante e la vittima sacrificale.

 

Bruxia. A Delfi, solo alle sacerdotesse era concesso di farsi tramite della volontà del dio usurpatore, Apollo, vincitore della guerra ma non della mediazione che rimase sostanzialmente luogo di sovranità muliebre, retto da una classe sacerdotale che aveva nella Pizia il cardine e il fulcro. Delfina, pitonessa, Pizia. Ovvero la sarda Bithia, custode dei segreti dei luoghi sacri isolani, e antesignana della bruxia, la strega per eccellenza della tradizione sarda. A differenza della coga – che viveva ai margini della società, terribile nell’aspetto e dai modi sinistri -, sa bruxia viveva nel mondo civile e poteva essere moglie e madre affettuosa e devota fedele ma che, mascherando il paganesimo con formule cristiane, manteneva saldo un ponte di comunicazione con un mondo estinto e dimenticato dalla storia. Una casta di sacerdotesse-guaritrici, chiusa e restia a svelare i propri segreti, tramandabili solo per linea femminile, ma ad altissimo prezzo. Il mistero che si svelava chiedeva, infatti, il pagamento di un fio: l’impossibilità di continuare la pratica. Altrimenti la casta sarebbe divenuta classe e la valenza misterica del rito avrebbe perso la sua efficacia.

 

L’Inquisizione in Sardegna. Un «feroce e ferale spettacolo durato due intere giornate» che «oltre a condanne più o meno gravi contro 70 poenitentiati» culminò «in 13 condanne al rogo», segnò una delle fasi più cupe della terribile stagione dell’Inquisizione sarda, a poco meno di ottant’anni dalla sua istituzione nell’isola avvenuta nel 1492 – a opera dell’Inquisitore generale Tomas de Torquemada – con la nomina di Sancho Marin. Se in linea teorica il tribunale dell’Inquisizione aveva competenza esclusiva in materia di ortodossia della fede, di fatto esso divenne col tempo strumento principe di repressione e controllo su infiltrazioni giudaizzanti e islamiche, nonché baluardo del cattolicesimo contro l’eresia protestante. In quest’ottica appare più chiaro lo spostamento della sua sede da Cagliari a Sassari nel 1563, dato dalla necessità di impedire l’accesso dai porti settentrionali dell’Isola di eresie protestanti provenienti dal Nord Europa.

 

L’abiura. Benché le cronache dell’epoca sogliano descrivere numerose e frequenti condanne, studi recenti sui dati di archivio dei processi per stregoneria, tenutisi in Sardegna dal Tribunale della Santa Inquisizione tra il XVI e il XVII secolo, mostra una realtà meno terrificante. Nessuno infatti dei 165 imputati di stregoneria subì la condanna a morte mediante il rogo o altra forma di esecuzione, e le pene commutate partivano dalla confisca dei beni per giungere alla detenzione in carcere o all’esilio dal proprio paese. Dalla forma de levi (riservata alle persone solo sospettate di atteggiamenti non gravi di eresia), fino a de violentia suspicione haeresis (quando l’imputato è giudicato eretico), passando per quella de haeris formali (per i apostati noti), restava l’abiura – con tutte le sue declinazioni di gravità – la tipologia più frequente di castigo. Ad eccezione del primo caso, il reo era in genere obbligato a prendere parte al cosiddetto rito dei penitenziati, che prevedeva un’apparizione pubblica, in chiesa o nelle piazze principali durante la quale i presunti eretici salivano su un palco e venivano duramente ripresi dall’inquisitore. Seguiva quindi la richiesta di professione dell’abiura, cui seguiva l’assoluzione e la riconciliazione, previo sconto delle pene comminate che potevano variare dalle preghiere ai digiuni, dalla multa alla confisca dei beni, dall’onere di vestire il sambienito – la veste gialla a croci rosse su petto e schiena, che ne rendeva pubblica la condizione – fino al carcere.

 

Il caso di San Sperate. Le più cospicue testimonianze di attività eretiche a San Sperate si concentrano nella metà del Settecento: ad Antonia Melis, vedova di 44 anni, furono comminate 17 denunce di eresia; la trentottenne Caterina Anna Manca, fu rinviata a giudizio per sei volte; Caterina Casti di 60 anni, si autodenunciò ammettendo di praticare tre tipi di brebus: quello contro s’ogu pigau, uno per dolori generici e quello per le sofferenze articolari.

Ma per quanto la pratica magica fosse in genere appannaggio del genere femminile, San Sperate può vantare anche illustri fattucchieri. Francesco Esquirru 65 anni, sposato, noto per la pratica de is Nuus, che impediva alle malcapitate vittime di avere rapporti carnali, querelato da Lucia Contini, fu accusato – in concorso col diavolo – della morte di Francesco Diego Cocody.

 

Maria Podda. Di grande fama dovette godere Giovanna Maria Podda, bruxia originaria di Guasila ma attiva anche nella Trexenta, a Cagliari, e in particolar modo a San Sperate. A inoltrare le denunce contro la sessantenne erano in genere i parroci dei paesi ove ella esercitava – pare con grande successo – la sua professione.

All’epoca dei fatti – tra il 1738 e il 1742 – si avvicendarono a San Sperate due prelati: Antiogo Sechy, che riferì al Sant’Uffizio le dicerie riportate da una tale Giovanna Hecca sui brebus recitati dalla Podda per curare persone e animali; e Antonio Puera, che si rese protagonista di numerosi verbali contro la donna. Riportò, infatti, con grande dovizia di particolari le delazioni di Antonia Maria Sechy contro Maria Podda per aver praticato sa maxia de s’ogu; quelle di Giuseppa Ecca, che usufruì dei servigi della guasilese per un cavallo del padre e quelle di Maria Ignazia Trudu, che affermò che la donna tramite oscuri rituali le fece ritrovare un escritto donatole da un uomo di chiesa. Più singolare e naif può apparire invece, agli occhi dei moderni, la denuncia di Bernardino Zucca, il quale sosteneva che Maria Podda si sarebbe resa colpevole di aver compiuto una magia sulle galline di Rosa di Malochy al fine di renderle più produttive!

Una costante di tutte queste delazioni consisteva nel successo pressoché garantito delle pratiche della strega, come nel caso di Lucia Figus e Ignazio Pilia, cui Maria liberò dal malocchio i figli: «Tenendo in alto le braccia dei piccoli, dopo aver loro soffiato in bocca, mise acqua, grani di frumento, una palma benedetta e una moneta all’interno di una ciottola, quindi recitò i brebus e applicò l’acqua su tutte le giunture. Ripeté la pratica per tre giorni consecutivi». E i bambini guarirono.

Ma non si trattava solo di maligne o dicerie se – nel 1738 – la stessa Podda dichiarò di aver usato sangue mestruale per conquistare Antonio Maria Carta, e se quest’ultimo dichiarò di essere guarito da una malattia, grazie a un rimedio fornitogli dalla donna.

Eppure in un clima di terrore diffuso, gli stessi beneficiari finivano per essere i delatori più o meno volontari della professionista. È plausibile, infatti, che i sacerdoti verbalizzassero le confessioni dei fedeli, arricchendole di particolari più fantasiosi secondo quanto riportavano le malelingue di paese. E ad aggravare la posizione della Podda c’erano i successi e la fama di guaritrice provetta che agli occhi dei prelati erano la prova provata dell’intervento del maligno nelle azioni della donna.

Ma se Maria Podda aveva una colpa era quella di essere nata in una terra in cui l’atavica religiosità non si perdeva mai del tutto. Immutabile e ancestrale, potente divinità della terra, frutto maturo di un raccolto acerbo e mai abbondante, sa femmia ha incarnato la grandezza e le contraddizioni della nostra Isola. Discendente di una antichissima progenie di Bithie, custode fedele – se pur ignara – di antichissimi riti precristiani, Maria praticava da buon medico sa maxia de s’ogu con la quale si sconfiggeva anche il malocchio più potente, sa pigadura de ogu, e salvava le vite. Ma era marchiata come strega. Perché la storia – spesso – la fanno le donne ma la scrivono gli uomini.

 

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